— Cosa te lo fa pensare?
— La tua faccia. Sembri così a disagio. Non vuoi sentirmi dire parole tenere. Non pensi che sia appropriato per la dura, cattiva dottoressa Lindman parlare così.
— Sono semplicemente poco abituato a vederti così. È un lato di te che non mi è familiare.
— Probabilmente non ti piace neanche come sono vestita stasera. Ma posso ridiventare l’altra Katya, se vuoi. Aspettami. Vado a cambiarmi, mi metterò il camice da laboratorio.
Suona quasi seria.
— Basta — dice Shadrach. Le prende la mano. — Sei stupenda stasera.
— Grazie. — La voce di Katya è acciaio. Ritrae la mano.
— Be’, è così. Ed è normale che io lo dica, quindi l’ho detto. È così che si gioca. Ora a te tocca dire…
— Smettiamola coi giochi, Shadrach. Okay?
— Okay. Ti sei vestita così per me o per te?
— Per tutti e due.
— Ah. Tanto per fare, giusto? Nient’altro che per questo. Perché avevi voglia di essere sexy. Giusto?
— Giusto — dice lei. — Va bene?
— Va bene. Va bene.
— E va bene che ti dica che mi sei mancato? Non costringermi a essere una specie di macchina, Shadrach. Non costringermi a essere l’immagine che hai tu di me. Io non ti sto chiedendo di dirmi anche tu che ti sono mancata. Ma lasciami il diritto di esprimere quel che provo io. Lasciami il diritto di essere sciocca di tanto in tanto, di essere tenera, volubile, se ne ho voglia. Senza preoccuparti di quale sia la vera Katya. Sono sempre la vera Katya, chiunque io sia al momento. Okay?
— Okay — dice lui, e le riprende la mano, e lei non sfugge più. Dopo qualche istante Shadrach dice: — È successo qualcosa mentre ero via?
— Sai già dei mal di testa del Khan, suppongo.
— Certo. È per questo che sono tornato proprio ora. non appena ho raccolto i suoi segnali telemetrici, a Pechino.
— È una faccenda grave?
— Dovremo operare — dice Shadrach. — Non appena sarà pronto un certo equipaggiamento speciale che ho ordinato.
— Un intervento al cervello è particolarmente rischioso?
— Non quanto ti aspetteresti. Ma il Khan non ama l’idea in generale, laser che gli curiosano nel cranio, eccetera eccetera. Non l’ho mai visto così spaventato per un’operazione. Ma andrà tutto benissimo. Cos’altro è successo?
— Ci sono stati i funerali.
— Sì. Lo so. Ero a Gerusalemme quel giorno, o forse a Istanbul. Ho visto delle fotografie qualche giorno più tardi.
— È stato mostruoso — gli dice Katya. — È durato giorni interi. Dio sa quanto dev’essere costato. Praticamente tutto si è fermato; ci sono stati i discorsi, le parate, le bande di ottoni, gli aeroplani in formazione, rituali e celebrazioni di ogni sorta. E Gengis Mao seduto lì, nel mezzo della piazza, a bersi tutto.
— Che peccato essermelo perso.
— Sono sicura che avevi il cuore spezzato.
— Sì. È stato terribile. — Ridono. Shadrach sta cominciando a pensare che gli piace abbastanza l’aspetto di Katya con quel vestito. Dice: — E poi? Il tuo progetto come va?
— Benissimo. Sono pronte le equivalenze di diciassette tratti cinesici ormai. Abbiamo fatto più progressi nelle ultime tre settimane che nei tre mesi precedenti.
— Bene. Voglio vedere quel vostro automa pronto presto. Voglio che il tuo progetto sia il primo pronto a partire.
— Hai già parlato con Nikki?
— No — risponde lui. — Non ancora.
— Ho sentito dire che anche Avatar procede bene. Dicono che hanno praticamente finito con la conversione dai parametri di Mangu ai… a quelli del nuovo donatore. Sono in anticipo di settimane intere. Mi spaventa, Shadrach.
— Non dovrebbe spaventarti.
— Non riesco a non pensare a… e se… se davvero…
— Non lo faranno — dice lui. — Non succederà. Sono troppo prezioso per Gengis Mao, gli servo così.
— "La ridondanza è la nostra via maestra per la sopravvivenza”, non dimenticartelo. Quanti altri dottori credi che abbia, in attesa? Completi di impianto telemetrico e tutto il resto?
— Nessuno.
— Come fai a esserne sicuro?
— Buckmaster lo saprebbe, se fosse stata costruita una serie di impianti sostitutiva. Non ha mai sentito parlare di una cosa del genere.
— Buckmaster è morto, Shadrach.
Shadrach lascia perdere quel punto. — Io so che non ci sono dei sostituti di Shadrach Mordecai che aspettano da qualche parte, pronti a subentrarmi quando toglierò il disturbo. Mi rendo conto ora di quanto Gengis Mao dipenda da me, da me esclusivamente, da me, insostituibile. E ho il sospetto che sarò molto meno ridondante nel futuro prossimo, molto più indispensabile. Avatar non mi preoccupa, Katya.
— Spero che tu sappia quel che stai facendo.
— Lo spero anch’io — dice lui. Fa un gesto verso l’uscita del salone, proprio al di sotto dell’immenso ritratto con gli occhi vacui del misero, sciocco Mangu. — Andiamo di sopra — suggerisce Shadrach, e Katya sorride e annuisce.
Ora è il mattino dell’operazione. Gengis Mao è sdraiato prono sul tavolo operatorio, sveglio, pienamente cosciente, e volge la testa di tanto in tanto per fissare con uno sguardo amaro i dottori che gli si affollano intorno: Shadrach, Warhaftig, e il consulente neurologico di Warhaftig, un israeliano di nome Malin. Lo sguardo del Khan non lascia spazio a equivoci: ha paura. Cerca di coprire la paura con la consueta baldanza, ma non ci riesce. Tra dieci minuti, i laser chirurgici gli trapaneranno il cranio, e la prospettiva non lo affascina. Se non fosse per le emicranie, i cui effetti sono visibili in questo momento sotto la forma di imperiali smorfie di dolore, non succederebbe niente di tutto questo.
La testa del Presidente è stata rasata. Senza la folta criniera nera sembra stranamente molto più giovane, più forte: quel cranio solido che spunta nudo parla dell’immenso vigore dell’uomo, dell’intensità delle forze che lo animano. La muscolatura del cuoio capelluto è potente e vistosa, colli e valli profilati in rilievo netto, un paesaggio accidentato di cordoni e corrugamenti nutriti e sviluppati attraverso quasi novant’anni di un feroce discutere, pensare, mordere, masticare. Gli angoli d’entrata per i chirurghi sono stati segnati sulla pelle con l’inchiostro luminoso.
Warhaftig è pronto a fare la prima incisione. La strategia dell’operazione si è evoluta nel corso di tre giorni di riunioni. Non si avvicineranno ai centri cerebrali. Il cranio verrà aperto in alto lungo la curva occipitale, e il congegno di drenaggio verrà inserito nel tronco dell’encefalo, dove c’è il ponte, subito al di sotto del quarto ventricolo in prossimità del midollo allungato. Questa, hanno concordato tutti, è la posizione ottimale per la valvola, e non sarà per caso che i laser staranno alla larga dalla sede della ragione: anche se qualunque scivolone di un chirurgo potrebbe danneggiare il midollo, che controlla le funzioni vasomotorie e cardiache e altre risposte autonome vitali. Ma Warhaftig non è tipo da fare scivoloni.
Il chirurgo lancia un’occhiata a Shadrach. — Tutto bene?
— Perfetto. Parta pure, quando è pronto.
Warhaftig tocca con dolcezza il collo di Gengis Mao. Il Khan non reagisce, né suscita una risposta in lui un forte pizzicotto alla base del cranio. È sotto anestesia locale, indotta come di norma attraverso sonopuntura.
— Adesso — dice Warhaftig. — Cominciamo.
Fa il taglio iniziale.
Gengis Mao chiude gli occhi; ma, i rilevatori interni dicono a Shadrach, il Khan è ancora pienamente cosciente, teso, come un leopardo attento appostato su un ramo alto. La pelle è arrotolata all’indietro e tenuta ferma dai retrattori. Warhaftig si fa di lato e permette a Malin di fare l’incisione cranica. Il tocco del neurochirurgo non è abile come quello di Warhaftig; ma Malin ha passato trent’anni ad affettare crani, e sa con una precisione che Warhaftig non potrebbe mai raggiungere quanto margine d’errore è concesso ai suoi tagli. Ecco: ora c’è una finestra che dà sull’interno della testa del Khan. Shadrach, sbirciando con immensa circospezione, fissa ammirato il cervello che ha concepito le teorie della depolarizzazione centripeta, che ha fatto nascere il Comitato Rivoluzionario Permanente, che ha tratto l’umanità fuori dal caos della Guerra Virale. È lì, lì, proprio lì, in quel misterioso bulbo grigio, che tutto è stato generato, già.