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E la donna lo tira per la manica, e Shadrach vede che è Katya e le chiede: — Che cosa vuoi? — Lei dice “È troppo tardi”, lui dice: — Hanno già scelto il prossimo donatore? — “Sì”. — Immagino che tu non abbia voglia di dirmi il suo nome. — “Credo che non dovrei”. — Chi è? — “Tu”, dice lei. Il mondo erutta in fiamme, tutto è inondazione. Il riso di Gengis Mao rotola attraverso i cieli, distruggendo le montagne.

Shadrach si risveglia. Si alza a sedere.

Stringe il pugno, e lo tiene ben serrato.

Da Ulan Bator, quattrocento chilometri più a est, giunge la scossa terribile dell’agonia di Gengis Mao, l’urlo muto dei sensori che rilevano l’onda di dolore che attraversa il Khan.

Shadrach si avvicina a Interfaccia Tre e annuncia: — Shadrach Mordecai, per servire il Khan.

I rilevatori lo esaminano. Lo approvano. Gli concedono l’accesso.

La mezzanotte è vicina. Shadrach si reca immediatamente alla camera del Khan, ma Gengis Mao non è lì. Shadrach aggrotta la fronte. È già da diversi giorni che il Khan è abbastanza in forze da lasciare il letto, ma è strano che se ne stia in giro a quest’ora della notte. Shadrach trova un servitore, il quale gli dice che il Khan ha trascorso la serata nella solitudine dello studio conosciuto come l’Eremo del Khan, all’altro capo del complesso di settantacinque piani, e probabilmente è ancora lì.

Avanti, dunque. Nello studio privato del Khan (non è lì), da lì nella sala da pranzo imperiale, vuota, quindi Shadrach entra nel suo studio personale, dove si sofferma per un istante, raccogliendo la concentrazione in mezzo ai suoi possedimenti familiari e amati, gli sfigmomanometri e i bisturi, i microtomi e i trapani. Qui, in una provetta, c’è l’autentica aorta addominale di Gengis II Mao IV Khan. Sicuramente un tesoro per la storia della medicina, quella. E qui, l’acquisizione più recente del museo di Shadrach, una ciocca dei capelli densi, rigogliosi, scuri in modo innaturale di Gengis Mao: è un pezzo forse più adatto a un museo della stregoneria e del voodoo che a uno di medicina, ma è pur sempre appropriata, perché è stata rimossa nel corso dei preparativi per l’intervento di chirurgia del cervello, portato a termine con successo durante il novantesimo (o ottantacinquesimo, o novantacinquesimo, o quel che è) anno di vita dell’illustre paziente. Dunque. Si prosegue. Shadrach si presenta alla porta dell’Eremo del Khan e chiede l’accesso.

La porta si ritrae.

L’Eremo del Khan è la stanza meno utilizzata di quel piano, accessibile solo attraverso lo studio di Shadrach e isolata per proteggerla dall’intrusione di qualunque distrazione esterna, anche il rumore più forte. Il soffitto è basso, le luci soffuse, l’arredamento è ornato, di gusto orientale, drappi pesanti e tappeti elaborati. Gengis Mao è sdraiato fra i cuscini di un divano appoggiato contro la parete sulla sinistra. In testa, la cute rasata è già coperta di folta stoppia nera. La vitalità di quest’uomo non ha cedimenti. Ma pare scosso, addirittura stravolto.

— Shadrach — dice. La voce è densa e gracchiante. — Sapevo che sarebbe venuto. L’ha sentito, non è vero? Circa un’ora e mezzo fa. Credevo che la testa mi stesse per scoppiare.

— Sì, l’ho sentito.

— Mi aveva detto che mi installavate una valvola. Per risucchiare via il liquido, aveva detto.

— È quel che abbiamo fatto.

— Non funziona bene?

— Funziona alla perfezione, signore — dice Shadrach, dolce.

Gengis Mao sembra confuso. — Allora cosa ha fatto sì che la testa mi facesse così male poco fa?

— Questo — dice Shadrach. Sorride e stende la mano sinistra, poi la serra in un pugno.

Per un attimo non succede niente. Poi gli occhi di Gengis Mao si dilatano, per la sorpresa e lo shock. Emette un ringhio e si porta le mani alle tempie. Si morde il labbro, china la testa nuda, si preme le nocche delle dita contro gli occhi, farfuglia imprecazioni gutturali e angosciate. I sensori impiantati che riferiscono a Shadrach delle funzioni fisiologiche del Khan gli dicono delle intense reazioni che stanno attraversando Gengis Mao: pulsazioni e respirazione, valori che si innalzano in modo allarmante, diminuzione della pressione sanguigna, la pressione endocranica si fa preoccupante. Gengis Mao si raggomitola a palla, rabbrividisce, si lamenta. Shadrach lascia andare le dita. Gradualmente il dolore abbandona Gengis Mao, il corpo teso e contorto si distende, e Shadrach non sente più la trasmissione dei sintomi dello shock.

Gengis Mao alza lo sguardo. Fissa Shadrach per un lungo istante.

— Cosa mi ha fatto? — chiede Gengis Mao con un sussurro severo.

— Le è stata installata una valvola nel cranio, signore. Per contrastare il pericolo di accumuli di fluido cerebrospinale. È però mio dovere dirle che la valvola è stata progettata in modo da avere un’azione reversibile. In seguito a un comando teletrasmesso, può pompare del liquido verso i ventricoli cranici, anziché risucchiarne via. Controllo io l’azione della valvola, qui, grazie a un cristallo piezoelettrico installato nel palmo della mia mano. Una contrazione della mano e il liquido cessa di defluire. Una contrazione più decisa e lo pompo verso l’interno. Sono in grado di interrompere i suoi processi vitali. Posso causarle un dolore intenso, come quello che ha ormai sperimentato due volte, e in un lasso di tempo sorprendentemente breve potrei causare la sua morte.