Una volta il mio amico Mei ha giurato sul suo cappello di fronte a tre ragazzi della nostra banda, me compreso, che avrebbe «infilato il suo otto triangoli nel culo di Amur», (così si chiamava il cane di zio Peste, un nostro vicino), se non riusciva a saltare il cancello della scuola da fermo, in un balzo.
Anche a ripensarci adesso non ho la più pallida idea di come Mei credesse di poter saltare ’sto cancello, e perché fosse così convinto di superare con un solo balzo un ostacolo di quattro metri d’altezza. Ma quello che mi preoccupava di più, allora, era come avrebbe eseguito l’operazione con il cappel lo nel caso avesse perso la scommessa, dato che Amur era il cane più grosso e cattivo del nostro quartiere: aveva una fama terribile, era un incrocio tra un pastore tedesco e la razza di cani che da noi in Siberia viene chiamata Alabaj, «schiaccia lupi». Di solito Amur gironzolava tranquillo nel cortile del suo padrone, ma a volte diventava incontrollabile, soprattutto se sentiva il rumore di un fischietto. Gli avevano già sparato due volte, dopo che aveva aggredito qualcuno, ma lui era sopravvissuto perché, come diceva mio padre, «più spari a quella bestia, più diventa forte». Personalmente a me quel mostro di cane faceva un casino di paura, una volta l’avevo visto attraversare il fiume e uccidere una capra sbranandola come se fosse fatta di stracci.
Beh, l’idea di Mei mi sembrava più che sciocca per i motivi che ho appena spiegato. Ma una volta detta, la parola non poteva essere rimangiata, e non rimaneva che assistere a quel folle spettacolo di cui Mei, per sua pura idiozia, era sia regista che attore.
Così ci siamo diretti verso il cancello della scuola.
Mei ha fatto un tentativo, ha saltato mezzo metro, battendo il naso contro il cancello. Dopo, seduto in terra, ha tratto le sue conclusioni:
«Accidenti, è veramente alto, non riuscirò mai…»
Io lo guardavo e non riuscivo a credere che una persona fatta di carne e ossa come tutti noi potesse essere così ingenua. Tentando di salvare la situazione, ho detto che era stato tutto molto divertente e che adesso potevamo anche tornarcene a casa. Ma lui mi ha ammazzato con la sua stupidità, dicendo che per una questione d’onore ora doveva tenere fede al giuramento.
Mi veniva da ridere e piangere contemporaneamente. Gli altri due miei amici, Besa e Gigit, invece erano entusiasti e già si figuravano tutti i modi in cui Mei avrebbe potuto avvicinarsi al cane ed eseguire il suo piano maledetto con la massima efficienza: camminavano davanti a me, spiegando a Mei tutti i dettagli della cosa, e io come un fantasma mi trascinavo dietro.
Una volta arrivati di fronte alla casa di Peste, Mei ha scavalcato il recinto e si è buttato nel cortile. Peste non era in casa, era andato a pescare: mancava la rete che di solito veniva stesa lungo il recinto.
Amur stava accucciato vicino alla porta: con una leggera ironia sulla sua faccia brutalmente orrenda ci fissava con interesse per capire come avremmo organizzato la penetrazione del suo ano con il cappello a otto triangoli.
Mei si era portato una corda per legare il cane, e aveva anche un tubetto di vaselina che degli amici avevano chiesto a zia Natalia, l’infermiera, per rendere più efficace il passaggio del cappello nella carne di cane. Mei si avvicinava a lui e quello non faceva una mossa, lo guardava con i suoi occhi indifferenti e pieni di noia, come se stesse guardando attraverso di lui. A ogni passo Mei prendeva più coraggio, se prima sembrava aver paura di fare movimenti forti e decisi e si spostava piano, come una tartaruga, gli ultimi passi invece li ha fatti quasi saltando, tutto contento che il cane non reagiva.
Quando tra Mel e Amur non c’erano che un paio di metri, Gigit si è messo due dita in bocca e ha fatto un forte fischio, provocando un rumore così fastidioso che pure a me è venuta la cresta dritta. In pochi istanti ho visto Mei volare magicamente oltre il recinto, passare sopra la mia testa e atterrare sul marciapiede, battendo la fronte contro l’asfalto bollente, scaldato dal generoso sole d’estate. Subito dopo, il cancello si è spostato sotto il peso del corpo di Amur, che ci sbatteva forte contro, accompagnando la sua rabbia con uno strano verso che io non avevo mai sentito prima da nessun essere vivente. Era una specie di urlo umano mischiato a un disperato e rabbioso coro di voci animali. Come se un elefante, un leone, un lupo, un orso e un cavallo avessero gareggiato a chi grida di più. Se in quel momento mi avessero chiesto quale voce poteva avere il demonio, avrei detto quella di Amur.
Mei aveva i pantaloni strappati sul sedere, e sotto si vedevano strisce rosse di sangue, le tracce della zampata di Amur. Era terrorizzato e ancora non capiva cosa gli fosse successo, invece Gigit e Besa si rotolavano a terra dal ridere e continuavano a fischiare, per scatenare ancora di più il cane, che dall’altra parte del cancello continuava a sputare schiuma e lanciare i versi della sua rabbia animale.
Il cancello era chiuso, per fortuna, perché se fosse stato aperto sicuramente Amur ci avrebbe fatti a pezzi tutti quanti.
Mei alla fine ha perso la sua scommessa, ma noi, dopo uno spettacolo così divertente, l’abbiamo perdonato.
A dodici anni finii in un casino. Fui processato per «minacce in luogo pubblico», «tentato omicidio con gravi conseguenze» e, ovviamente, per «resistenza a un rappresentante del potere nell’adempimento dei doveri di difesa dell’ordine pubblico». Era il mio primo processo penale, e date le circostanze (ero un ragazzino e la vittima era un pregiudicato più grande di me di un paio d’anni) il giudice decise di limitarsi a una condanna che da noi in gergo viene chiamata «coccola». Niente prigione, nessun obbligo di frequentare quei programmi di rieducazione e balle varie dopo i quali la gente di solito diventa ancora più incarognita e arrabbiata. Era solo necessario seguire una specie di coprifuoco personale: restare in casa dalle otto di sera fino alle otto di mattina, presentarsi ogni settimana nell’ufficio minorile e frequentare la scuola.
Dovevo vivere cosi per un anno e mezzo, dopo avrei potuto tornare alla vita normale. Ma se nel frattempo commettevo qualche reato finivo dritto dritto sulle brande di un carcere minorile, о come minimo in una colonia rieducativa.
Per un anno è andato tutto liscio, cercavo di tenermi il più possibile lontano dai guai; certo, spesso uscivo di notte, perché ero sicuro di non venire scoperto. L’importante, mi dicevo, era non farsi beccare in un posto lontano da casa nell’orario sbagliato e soprattutto non farsi trovare immischiato in qualche questione seria.
Ma un pomeriggio Mei e altri tre amici sono venuti da me. Ci siamo riuniti in giardino, sulla panca sotto l’albero, per discutere di una grana capitata una settimana prima con un gruppo di ragazzi di Tiraspol'. Avevamo un amico, un ragazzo che si era trasferito nel nostro quartiere di recente; la sua famiglia era stata costretta a lasciare San Pietroburgo perché il padre aveva avuto problemi con la polizia. Erano ebrei, ma viste le circostanze particolari, e qualche affare comune, i siberiani avevano garantito la loro protezione.
Il nostro amico aveva tredici anni e si chiamava Lyéza, un vecchio nome ebraico. Era un ragazzo molto chiuso e debole: aveva problemi di salute, era quasi sordo e portava occhiali enormi, quindi nella comunità siberiana è stato subito trattato con compassione e comprensione, come tutti i disabili. Mio padre ad esempio non faceva che raccomandarmi di badare a lui e di tirare fuori la lama nel caso qualcuno lo aggredisse о lo offendesse. Lyéza era molto istruito, aveva maniere raffinate e parlava sempre con serietà, tutto quello che diceva sembrava convincente. Non a caso l’avevamo subito battezzato con un soprannome alla sua altezza: «il Banchiere».
Lyéza girava sempre con noi, non portava mai coltelli о altre armi e non era capace nemmeno di fare a pugni, però sapeva tutto, era una specie di enciclopedia vivente, raccontava in continuazione le storie che si trovano sui libri: come vivono e si moltiplicano gli insetti, come si formano i bran-chi degli animali, perché gli uccelli migrano, cose cosi. Mi ricordo che una volta è riuscito a fare l’impossibile, e cioè a spiegare a Mei come si riproducono i vermi ermafroditi: ci ha messo parecchio tempo, però alla fine ce l’ha fatta, Mei girava come fulminato, come se avesse visto Gesù, Dio Padre e la Madonna tutti in una volta, e diceva: