«Ma tu pensa che storia! I vermi non hanno una famiglia! Niente papà e mamma, fanno tutto da soli!» Far capire qualcosa, anche una piccolissima cosa, al mio amico Mei era segno di grandi qualità umane e intellettuali.
Mei e gli altri tre miei amici, Besa, Gigit e Tomba, mi hanno raccontato che Lyèza era andato da solo a Tiraspol', al mercatino settimanale dell’usato, per scambiare dei francobolli, visto che lui era un appassionato collezionista. Al ritorno, in pullman, era stato aggredito da un branco di coglioni che lo avevano picchiato (per fortuna non tanto forte, solo qualche schiaffo) e gli avevano fregato il suo album di francobolli. Mi era salita la carogna, cosi abbiamo fissato per la sera stessa un appuntamento con gli altri minori del nostro quartiere, per fare una spedizione punitiva a Tiraspor.
Tiraspor era la capitale della Transnistria, si trovava a una ventina di chilometri da noi, sul lato opposto del fiume. Era una città più grande della nostra, e molto diversa. La gente di Tiraspor stava lontana dal crimine, li c’erano tante fabbriche di armi, reparti militari e uffici vari, quindi gli abitanti erano tutti lavoratori о militari. Avevamo un pessimo rapporto con i ragazzi di quella città, li chiamavamo «mammoni», «caproni», «senza palle». A Tiraspor non vigevano le leggi crimina li di onestà e rispetto tra le persone, e i minori si comportavano da veri e propri animali. Non a caso nessuno di noi si era sorpreso di quello che era successo a Lyèza: a Tiraspol' essere aggrediti da qualche gruppetto di bastardi era la norma.
Siamo andati a casa di Lyèza per vedere come stava e chiedergli se gli andava di venire con noi per aiutarci a riconoscere gli aggressori. Abbiamo spiegato a suo padre che saremmo andati a Tiraspol' per compiere un atto di giustizia, per punire coloro che avevano aggredito suo figlio. Suo padre gli ha dato il permesso di seguirci e ha augurato fortuna a tutti quanti: era molto contento che Lyèza avesse degli amici come noi, perché rispettava profondamente la filosofia siberiana di fedeltà al gruppo.
Lyéza non ha detto niente, ha preso la giacca ed è uscito con noi. Insieme siamo tornati a casa mia, dove abbiamo progettato tutto.
Verso le otto di sera una trentina di amici si sono radunati H davanti. Mia madre ha capito subito che stavamo per combinare qualche guaio:
— Forse è meglio che stai tranquillo, non puoi rimanere a casa?
Cosa dovevo risponderle?
— Dài, non ti preoccupare, mamma, facciamo un giro veloce e poi torniamo…
Povera mamma mia, non ha mai osato opporsi alle mie decisioni, anche per questo ha sofferto tanto.
Ma noi avevamo una meta: a Tiraspol' c’era un posto, in mezzo a un parco della periferia, dove di sera si radunavano tutti i deficienti della città. Si chiamava «il Poligono». Li di solito i minorenni giravano con i motorini, cuocevano carne alla griglia, consumavano alcol e droga in libertà fino a tarda notte.
Va detto che anche se in quel posto c’erano sempre tante persone, noi ci andavamo con la certezza di ottenere giustizia e seminare caos e distruzione, perché sapevamo bene che tra la gente di quella città non si usava essere uniti nel male: facevano gruppo solo per combinare guai e per divertirsi, ma quando arrivava il momento di pagare i conti ognuno se ne andava per la sua strada.
Per non dare nell’occhio siamo arrivati in città con il pullman di linea, poi, divisi in gruppi di cinque, ci siamo incamminati verso il parco.
Il mio amico Mei mi ha mostrato una pistola a tamburo a cinque colpi, un’arma vecchia, di piccolo calibro, che io chiamavo affettuosamente «la preistorica».
— Gliela farò vedere, stasera! — ha detto con un sorriso largo, e si capiva chiaramente che non vedeva l’ora di fare qualcosa di brutto.
— Cristo Santo, Mei, mica andiamo in guerra! Nascondi ’sta merda che non la voglio neanche vedere… — Non mi piaceva proprio l’idea di tirar fuori le pistole. Un po’ perché secondo la nostra educazione un’arma da fuoco si usa solo in casi estremi, ma soprattutto perché se viene fuori che alla prima occasione tu ti aggrappi alla pistola, poi la gente parla male di te. Fin da piccolo ho imparato da mio zio che la pistola è uguale al portafoglio, si tira fuori solo per usarla, tutto il resto è da imbecilli.
— Ma è pericoloso andare senza, chissà quanto ferro hanno addosso quelli, sono preparati… — Mei cercava di convincermi che il suo comportamento aveva senso.
— Immagino come sono preparati, tutti già strafatti, fumati e con i buchi nelle vene… Ma per la passione di Cristo, Mei, sono alcolizzati о tossici, si cagano sotto quando vedono la loro stessa ombra, non ti vergogni a tirar fuori il ferro davanti a loro?
— E va bene, non la uso, però la terrò pronta, e se la situazione precipita…
Io lo guardavo come fosse un malato mentale, era impossibile spiegargli qualcosa.
— Mei, te lo giuro, l’unica persona che stasera potrà far precipitare la situazione sei tu, con la tua cazzo di pistola! Se ti vedo usarla, puoi non salutarmi mai pili, — ho tagliato corto.
— Va bene, Kolima, non ti arrabbiare, non la userò, se non ti va. Però sappi che ognuno è libero di fare quello che gli pare —. Il mio amico cercava d’insegnarmi la nostra legge.
— Certo, come no, ognuno è libero di fare quello che gli pare quando è da solo, però se è con gli altri deve stare in riga, quindi niente più discussioni… — Io ci tenevo ad avere sempre l’ultima parola, con Mei, solo cosi potevo sperare che gli rimbalzasse in testa come una pallina di gomma.
Arrivati al parco, il gruppo s’è riunito. I «principali», cioè quelli che avevano la responsabilità dei minori, eravamo so lo io e Jurij, detto «Gagarin», che aveva tre anni più di me. Dovevamo decidere come fare a individuare con esattezza gli aggressori di Lyéza, e come spingerli a venire allo scoperto.
— Prendiamone un paio, due qualsiasi, e minacciamo di ammazzarli se gli aggressori non si fanno vedere! — ha proposto Besa, che nella strategia era paragonabile a un carro armato: andava avanti piegando anche gli alberi.
— E sai che succede? In tre secondi scappano tutti e noi ci ritroviamo tra le mani due idioti strafatti che non c’entrano nulla…
Io avevo un piano da proporre, però volevo farlo con delicatezza, perché per come la vedevo io, il suo esito dipendeva tutto da Lyèza.
— … Sentite, scalzi, ho un’idea che funzionerà di sicuro, ma serve il coraggio di una persona. Il tuo, Lyèza. Serve che tiri fuori le palle —. L’ho guardato, sembrava proprio quello che era: uno che non c’entrava niente col nostro branco. Con la giacca perfettamente abbottonata, le lenti spesse che lo rendevano un mostro e i capelli tagliati alla maniera degli attori degli anni Cinquanta, era completamente fuori dalla scena. Lyèza mi si è avvicinato, per sentire meglio quello che stavo per dire. - Devi andare lì da solo, cosi quei bastardi ti vedono e sicuramente faranno qualcosa, si faranno riconoscere. Noi circondiamo la zona e stiamo dietro gli alberi, pronti ad agire… Tu appena li riconosci grida, fai un fischio, e noi gli saltiamo addosso in un baleno. Il resto è già nelle mani del Signore…
— Niente male, Kolima, un bel piano, se Lyèza è d’accordo, — ha commentato Gagarin guardando Lyèza in attesa della sua reazione.
Lyèza si è aggiustato gli occhiali sul naso, e con la voce decisa e determinata ha detto: