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— Certo che sono d’accordo. Solo che dopo, quando ci sarà casino, non so come fare, non credo che riuscirò a picchiare qualcuno, non l’ho mai fatto in vita mia…

Mi faceva impressione la dignità con cui quel ragazzo diceva la verità su se stesso. Non aveva nessuna paura, spiegava solamente i fatti. Il mio rispetto verso di lui cresceva sempre di più.

— Quando saltiamo fuori dagli alberi tu nasconditi dietro, Besa ti starà vicino nel caso qualcuno avesse voglia di prendersela con te, — Gagarin ha fatto un gesto a Besa indicando gli occhi, poi ha puntato le due dita su Lyèza. - Dalla sua testa non deve cadere nemmeno un capello!

Ci siamo diretti verso il centro del parco. Camminando nel buio, abbiamo evitato il vialetto principale. Siamo arrivati agli alberi dietro cui si apriva lo slargo asfaltato con le panchine disposte in cerchio, sotto la luce gialla e sporca di tre lampioni. Il Poligono.

Si sentiva la musica, si vedevano i ragazzi seduti sulle panchine, per terra, sui motorini. Erano una cinquantina, tra loro c’erano anche delle ragazze. L’atmosfera era molto rilassata.

Ci siamo divisi in sei gruppi e abbiamo circondato l’area. Al momento giusto ho dato una leggera spallata a Lyéza:

— Dai, fratellino, facciamogli vedere che con quelli di Fiume Basso non si scherza…

Lui ha fatto si con la testa ed è partito in direzione del campo nemico.

Appena Lyéza è uscito allo scoperto, tra i presenti c’è stato un forte movimento. Qualcuno si è alzato dalla panchina e lo ha esaminato con curiosità, altri ridevano, indicandolo. Una ragazza ha urlato come una matta, in preda alle risa e al singhiozzo allo stesso tempo. Era visibilmente ubriaca. La sua voce mi ha fatto subito schifo, mi pareva quella di un’adulta alcolizzata, rovinata dal fumo, molto grezza e per niente femminile:

— Guarda, Pelo! C’è quel finocchio del pullman! E tornato a prendere i suoi francobolli!

La ragazza non pronunciava bene la «r», cosi la sua parlata aveva pure una sfumatura comica.

Noi eravamo tutti attenti, pronti a scattare non appena avessimo individuato il tipo a cui si era rivolta. Non ci ha fatto aspettare tanto. Da una panchina vicina, strapiena di ragazzi, si è alzato uno che stava suonacchiando una chitarra, e mettendo da parte lo strumento è partito verso Lyèza con un passo leggero e teatrale, spalancando le braccia come si fa per accogliere un vecchio amico.

— Ma guarda chi si rivede! Piccolo bastardo! Hai deciso di suicidarti, stasera?… — Il resto non è riuscito a sputarlo fuori, perché dal buio è apparsa la figura di Gigit che come una tigre si è scagliato su di lui e lo ha atterrato dandogli una veloce serie di calci violenti in faccia. Sono saltato fuori dagli alberi anch’io, in un attimo eravamo tutti sul piazzale e abbiamo circondato i nostri nemici.

Tra di loro si era sparso il panico, alcuni si buttavano prima da una parte e poi dall’altra tentando di scappare, ma appena si trovavano di fronte a uno di noi si ritiravano. A un certo punto fra quelli del Poligono è partito un gruppo di «decisi», ed è cominciata davvero la rissa.

Ho visto balenare molti coltelli e anch’io ho tirato fuori la mia picca. Gigit mi è venuto vicino, e spalla contro spalla siamo avanzati, colpendo in tutte le direzioni ed evitando i pochi attacchi che partivano verso di noi.

Tanti di loro, sfruttando il momento, hanno cominciato a scappare. La ragazza che urlava era talmente ubriaca che è caduta mentre correva, e qualcuno dei suoi amici le ha calpestato la testa: l’ho sentita gridare e poi ho visto il sangue sui suoi capelli.

Alla fine siamo rimasti contro una ventina di loro, e come si dice da noi «li abbiamo pettinati» per bene, nessuno è rimasto in piedi, erano tutti in terra, molti avevano tagli sulla faccia о sulle gambe, alcuni i legamenti delle ginocchia recisi.

Di solito Mei alla fine di ogni rissa, quando capiva che non c’era più nessuno da battere ed era arrivato il momento di fermarsi, faceva una specie di esibizione della sua forza fisica (era una vera bestia, a tredici anni pesava quasi ottanta chili ed era fatto solo di muscoli, tranne quello del cervello). Per lui era un modo di finire in bellezza la battaglia: far vedere al mondo che era scatenato, aggressivo e più cattivo di tutti. In poche parole faceva una sceneggiata.

Urlando come un mostro inferocito e facendo strane mosse con la sua bruttissima faccia, ha preso un motorino che riposava pacifico sul suo cavalletto, lo ha alzato al livello del petto e dopo aver corso per cinque-sei metri lo ha buttato sopra un gruppo di nemici, che si trovavano insieme agli altri nella posizione orizzontale a cui li avevamo costretti, e cioè sdraiati sull’asfalto a massaggiarsi le ferite.

Il motorino è caduto con un gran rumore, colpendo un ragazzo sulla testa, e altri su varie parti del corpo. Quelli colpiti hanno cominciato a gridare dal dolore tutti insieme, in coro. Per qualche motivo Mei si è arrabbiato ancora di più per quelle urla, e ha iniziato a pestarli con una violenza inspiegabile: alla fine è salito sul motorino e ha fatto sopra di lui (e sopra di loro) una serie di salti crudelissimi. Quei poveracci urlavano disperatamente e lo supplicavano di smetterla con quella tortura.

— Ehi, pezzi di merda! Siamo di Fiume Basso, avete pestato un nostro fratello, e per questo non avete ancora finito di pagare! — Gagarin ha comunicato il suo solenne messaggio a tutti quelli che si trovavano stesi per terra. - La soddisfazione personale ce la siamo appena presa, picchiandovi e tagliandovi. Ma dovete ancora soddisfare la legge criminale che avete disgraziatamente violato! Entro la prossima settimana cinque di voi, brutti finocchi schifosi, si presenteranno nel nostro quartiere con cinquemila dollari, da pagare alla nostra comunità per i disturbi che avete creato. Se non lo farete, ripeteremo sistematicamente questo macello ogni settimana, finché non vi ammazzeremo tutti quanti, uno per uno, come cani rognosi! Arrivederci e buona notte!

Ci sentivamo campioni imbattibili, eravamo così contenti di com’era andata che siamo partiti verso casa cantando a squarciagola le nostre canzoni siberiane.

Attraversavamo il parco respirando l’aria della notte, e ci sembrava che non ci sarebbe stato un momento più felice di questo nella nostra vita.

Appena usciti dal parco ci siamo trovati davanti una decina di macchine della polizia: i poliziotti stavano schierati dietro le macchine, con le armi puntate su di noi. Si è accesa una luce fortissima che ci ha accecato tutti e una voce ha urlato:

— Le armi fuori dalle tasche, se qualcuno fa il cretino lo riempiamo di buchi! Non fate i coglioni, non siete a casa vostra!

Abbiamo obbedito e ognuno ha buttato la sua arma a terra: in pochi secondi si è formato un bel mucchio di coltelli, tirapugni e pistole.

Ci hanno caricati in macchina, colpendoci con i calci dei fucili, e ci hanno portati tutti quanti al distretto di polizia. Pensavo alla mia picca, quel coltello cosi amato e cosi importante per me, che sicuramente non avrei più rivisto. Era questo il mio chiodo fisso. L’idea che potevo finire in carcere, vista la mia situazione, non mi sfiorava nemmeno.

In distretto siamo stati trattenuti due giorni. Ci picchiavano, ci tenevano in una stanza stretta senza cibo né acqua. Venivano in continuazione a prelevare qualcuno dalla stanza e poi lo riportavano indietro con la faccia spaccata.

Nessuno di noi ha detto il suo vero nome, anche gli indirizzi di casa erano falsi. L’unica cosa su cui non abbiamo mentito era la nostra appartenenza alla comunità siberiana. Per la nostra legge i minorenni possono comunicare con i poliziotti: noi abbiamo sfruttato questa possibilità per imbrogliarli, e rendere più difficile il loro lavoro.

Mei non si voleva calmare e ha cercato di aggredire i poliziotti, che lo hanno picchiato molto forte, colpendolo con il calcio della pistola in testa, aprendogli una brutta ferita.