Alla fine ci hanno liberati tutti, dicendo che alla prossima però ci avrebbero ammazzati. Noi, affamati, stanchi, esauriti dalle botte e dalla tensione, siamo tornati verso casa.
Solo a quel punto, mentre mi trascinavo come un moribondo tra le vie del mio quartiere, mi sono reso conto di colpo che avevo avuto una grande fortuna. Se la polizia mi avesse identificato avrei dovuto trascorrere come minimo cinque anni sulle brande di legno di qualche carcere minorile.
Mi sentivo ubriaco di gioia. Era un miracolo, mi dicevo, un vero miracolo, essere liberi dopo una storia come quella. Eppure continuavo a pensare alla mia picca: come se dentro di me si fosse formato un buco nero, come se fosse morto qualcuno dei miei cari.
Mi avvicinavo a casa guardandomi le punte dei piedi, guardando a terra, sottoterra se fosse stato possibile, perché sentivo vergogna, mi sembrava che tutto il mondo mi stesse giudicando perché non ero stato capace di conservare la mia picca.
Quando sono arrivato, ero come un fantasma, trasparente e spento. Mio zio Vitali] è uscito sulla veranda e ha detto, sorridendo:
— Ma dài! Hanno riaperto Auschwitz? E come mai non ne ho saputo niente?
— Lasciami stare, zio, ho tutto il corpo che mi fa piangere… Voglio solo dormire…
— Eh eh, mio caro giovane, purtroppo non si danno le botte senza prenderle… E la regola della vita…
Per due giorni non ho fatto altro che dormire e, nelle pause tra un sonno e l’altro, mangiare. Ero tutto rotto, e ogni volta che nel letto mi giravo su un lato stringevo i denti. Di tanto in tanto mio padre о mio zio si affacciavano alla porta di camera mia e mi prendevano in giro:
— Adesso si che si sta bene, dopo una ripassata seria… Ma non ti è ancora passata la voglia?
Io non rispondevo niente, facevo soltanto sospiri profondi, e loro ridevano a ogni mio sospiro.
Al terzo giorno il desiderio di tornare alla vita regolare mi ha fatto alzare presto. Erano quasi le sei di mattina, dormivano ancora tutti tranne nonno Boris che si preparava a fare ginnastica. Sentivo fastidio, una sensazione lontana dal dolore che però blocca il corpo, e ogni movimento che fai ti viene con fatica, sei lento, come un anziano che ha paura di perdere l’equilibrio.
Mi sono lavato e ho guardato bene la mia faccia nello specchio del bagno. Il livido non era così grande come credevo, non si vedeva quasi. Invece sulla mano destra avevo due lividi neri, uno aveva chiaramente la forma del tacco di uno stivale. Mentre mi pestavano, uno sbirro doveva avermi schiacciato la mano: lo facevano spesso a scopo preventivo, per causarti delle fratture scomposte che di solito guarivano male, così poi tu non riuscivi più a stringere bene il pugno о a tenere un’arma. Per fortuna erano solamente lividi, non avevo fratture о strappi di legamenti. Avevo un altro grande livido in mezzo alle gambe, proprio sotto il mio orgoglio maschile: sembrava che qualcosa di nero mi si fosse appiccicato al corpo, faceva impressione e soprattutto male, quando svuotavo la vescica.
«Beh, poteva anche andare peggio…» ho concluso, e sono andato a fare colazione. 11 latte caldo con il miele e un uovo fresco mi hanno rimesso al mondo.
Ho deciso di andare a controllare la mia barca al fiume e pacioccare un po’ con le reti, e magari, attraversando il quartiere, chiedere in giro com’erano messi i miei amici.
Uscendo di casa ho trovato mio nonno che faceva ginnastica in cortile. Nonno Boris era una roccia, non fumava e non aveva altri vizi, era un salutista totale. Faceva la lotta, judo e sambo, e ha trasmesso queste passioni a tutto il resto della famiglia. Quando si esercitava di solito non si fermava neanche un secondo: cosi ci siamo salutati solo con lo sguardo. Io gli ho fatto un gesto, facendogli capire che stavo uscendo, e lui mi ha sorriso e basta.
Ho imboccato la via che portava al fiume. Passando ho visto all’angolo, vicino al portone di casa di Mei, la sua figura massiccia. Era nudo, in mutande, stava parlando con un ragazzo della nostra zona, un nostro amico soprannominato «il Polacco». Gli stava facendo vedere tutti i suoi lividi, e gli raccontava quant’era accaduto facendo un casino di gesti e picchiando nell’aria vuota nemici immaginari.
Mi sono avvicinato. Aveva una cucitura sulla testa, una decina di punti. La sua faccia orrenda era segnata da un sorriso e l’ottanta per cento del suo corpo era di colore blu, a volte verde e in alcuni punti profondamente nero. Ma nonostante lo stato fisico era di ottimo umore. La prima cosa che mi ha detto è stata:
— Ma Cristo Santo, povera madre tua! Guarda come ti sei ridotto!
Mi è venuto da ridere. Anche al Polacco: si piegava in due dalle risate, gli uscivano le lacrime dagli occhi.
— Dài, pagliaccio, ma ti sei visto allo specchio? E dici che sono io a essere ridotto male! Vai a vestirti, va’, che andiamo al fiume… — Gli ho dato una leggera spallata e lui ha emesso un grido.
— Ma non puoi essere un po’ più delicato con me? Ne ho prese per tutti voi l’altra sera! — ha detto con vanità.
E corso a vestirsi e siamo andati verso il fiume. Mentre camminavamo mi ha aggiornato sugli altri: stavano tutti bene, un po’ acciaccati ma bene. Gagarin già il giorno dopo la rissa era andato a Caucaso, un quartiere della nostra città, a fare i conti con qualcuno di quelle parti. Lyèza e Besa — che erano miracolosamente riusciti a nascondersi nel parco e non erano stati presi dalla polizia — stavano meglio di tutti, non avevano neanche un graffio.
Arrivati alla mia barca, ho messo il motore in acqua e ho proposto a Mei di fare un giro sul fiume. Tirava un’aria fresca, una bella aria mattutina, il sole si stava alzando sopra la terra e tutto era luminoso e pacifico.
Mei è saltato in barca e si è sdraiato a prua, con la pancia in su, a guardare il cielo senza nuvole: era un sì.
Ho preso un remo e con quello ho allontanato la barca dalla riva, poi ho remato piano stando in piedi: avevo il vento in faccia, era bello e rilassante. A dieci metri dalla riva ho sentito la corrente del fiume diventare sempre più forte, così ho acceso il motore e aumentando piano la velocità sono partito controcorrente verso il ponte vecchio. Ho messo la giacca che tenevo sempre in barca. Mei era ancora sdraiato a prua, non si muoveva, aveva gli occhi chiusi, dondolava so lo leggermente il piede.
Arrivati al ponte ho fatto una curva larga e sono tornato indietro con il motore spento, lasciando che la corrente portasse la barca, remando solo ogni tanto per correggere la direzione. Mentre la barca scendeva lentamente giù per il fiume, di tanto in tanto ci buttavamo in acqua e nuotavamo lì intorno. In acqua mi sentivo protetto, mi lasciavo portare dalla corrente, aggrappandomi alla barca о standole un po’ lontano. Era la migliore medicina del mondo, l’acqua del fiume, avrei potuto starci anche un giorno intero.
Quando abbiamo toccato riva, Mei è saltato giù dalla barca e ha detto che voleva andare a trovare una sua vecchia zia che abitava poco lontano e si lamentava sempre che nessuno andava a trovarla. Io ho deciso di andare da nonno Kuzja, per raccontargli tutto quello che ci era capitato. Insomma, tutti e due avevamo pensato ai nostri vecchi.
Nella comunità degli Urea siberiani viene data la massima importanza al rapporto tra bambini e vecchi. Per questo esistono molte usanze e tradizioni che consentono ai criminali anziani con grande esperienza di partecipare all’educazione dei bambini, anche se non hanno con loro un rapporto di sangue. Ogni criminale adulto chiede a un anziano, di solito uno che non ha famiglia e abita da solo, di aiutarlo nell’educazione dei figli. Manda spesso i bambini da lui, a portargli del cibo о a dargli una mano in casa; in cambio il vecchio racconta le storie della sua vita e insegna ai bambini la tradizione criminale, i principi e le regole del comportamento, i codici dei tatuaggi e tutto quello che in qualche modo è legato all’attività criminale. Questo tipo di rapporto in lingua siberiana viene chiamato «intagliare», per la somiglianza che c’è tra l’educazione di un giovane e la lavorazione di un ceppo di legno, che da grezzo va intagliato per diventare un’opera d’arte о qualcosa di utile.