Выбрать главу

Quando il treno si è fermato, abbiamo realizzato che non c’erano più i soldati, solo i macchinisti e alcuni ferrovieri.

Qui non conoscevamo nessuno, avevamo solamente un po’ di oro con noi, tanti erano riusciti a portarsi dietro anche le armi.

Siamo andati a vivere al fiume, eravamo cresciuti sui fiumi siberiani, sapevamo pescare e navigare bene: cosi è nato il nostro quartiere Fiume Basso».

Nella Russia di adesso non si sa quasi niente dell’esilio dei siberiani in Transnistria, qualcuno ricorda i tempi della collettivizzazione comunista, quando per il Paese passavano i treni pieni di povera gente che veniva spostata da una parte all’altra per ragioni note solo al governo.

Nonno Kuzja diceva che i comunisti avevano pensato di separare gli Urea dalle loro famiglie in modo da far morire la nostra comunità, invece, per ironia del destino, forse l’avevano salvata.

Dalla Transnistria tanti giovani sono andati in Siberia, per partecipare a modo loro alla guerra contro i comunisti: rapinavano i treni, le navi, i magazzini militari e creavano tante difficoltà ai comunisti. Sistematicamente tornavano in Transnistria a leccarsi le ferite, о per stare un po’ con la famiglia e gli amici. Nonostante tutto, questa terra è diventata una seconda patria a cui i criminali siberiani hanno legato le loro vite.

Nonno Kuzja non mi educava facendo lezioni, ma parlando, raccontando le sue storie e ascoltando le mie ragioni. Grazie a lui ho imparato tante cose che mi hanno permesso di sopravvivere. Il suo modo di vedere e capire il mondo era molto umile, non parlava della vita dalla posizione di uno che osserva dall’alto, ma da quella di un uomo che sta in piedi sulla terra e cerca di restarci il più a lungo possibile.

— Tanta gente cerca disperatamente quello che non è capace di trattenere e di capire, per questo è piena di odio e sta male per tutta la vita.

Mi piaceva il suo modo di pensare, perché era molto facile da comprendere. Non dovevo mettermi nei panni di un altro, bastava ascoltarlo restando me stesso per capire che tutto quello che usciva dalle sue labbra era vero. Aveva una saggezza che veniva dal profondo, non sembrava neanche umana, come se arrivasse da qualcosa di più grande e forte dell’uomo.

— Guarda come siamo messi, figliolo… Gli uomini nascono felici, però si autoconvincono che la felicità è qualcosa che devono trovare nella vita… E cosa siamo? Un branco di animali senza istinto, che seguono idee sbagliate, cercando quel lo che già hanno…

Una volta, mentre eravamo a pesca, parlavamo proprio di felicità. A un certo punto, lui mi ha chiesto:

— Guarda gli animali, secondo te loro ne sanno qualcosa della felicità?

— Beh, penso che anche gli animali ogni tanto si sentono tristi о felici, solo che non riescono a esprimere i loro sentimenti… — ho risposto io.

Lui mi ha guardato in silenzio e poi ha detto:

— E lo sai perché Dio ha dato all’uomo una vita più lunga di quella degli animali?

— No, non ci ho mai pensato…

— Perché gli animali vivono seguendo il loro istinto e non fanno sbagli. L’uomo vive seguendo la ragione, quindi ha bisogno di una parte della vita per fare sbagli, un’altra per poterli capire, e una terza per cercare di vivere senza sbagliare.

Io lo andavo a trovare sempre, nonno Kuzja, specialmente quando stavo un po’ male о ero preoccupato per qualcosa, perché lui mi capiva al volo e riusciva a farmi passare tutti i brutti pensieri.

Quel mattino, dopo essere stato picchiato dai poliziotti, avevo un tale peso nell’anima che quasi mi faceva male respirare. Se ripensavo a quello che mi era successo mi veniva da piangere, giuro, dalla disperazione e dall’offesa che sentivo addosso. Il giro in barca con Mei mi aveva fatto bene, ma adesso avevo proprio bisogno di nonno Kuzja e delle sue calde parole. Camminavo verso casa sua come uno che cammina nel sonno, senza accorgersi di dove va: era una specie di istinto a guidarmi in quel momento.

Nonno Kuzja si svegliava sempre molto presto, quindi non appena sono arrivato al cancello della casa di sua sorella, dove lui abitava, l’ho trovato già sul tetto, che lanciava in aria i primi colombi. Mi ha visto e mi ha fatto il gesto di salire anch’io. Cosi ho preso una vecchia scala tutta storta a cui mancavano due pioli, l’ho appoggiata al tetto e ho cominciato a salire. Nonno Kuzja nel frattempo stava guardando come si allontanava in cielo una colomba, era già abbastanza in alto. Poi ha abbassato gli occhi verso di me e mi ha detto:

— Vuoi farlo volare tu questo? — mostrandomi un bel colombo che teneva nella mano destra.

— Si, ci provo… — ho risposto io. Sapevo bene come si lanciano i colombi, nella mia famiglia ne avevamo tanti, mio nonno Boris era famoso per i suoi colombi, girava mezza Russia per cercare nuove razze, poi le mischiava e selezionava i più forti.

Nonno Kuzja non aveva tanti colombi, una cinquantina, non di pili, però erano tutti esemplari eccezionali, perché le molte persone che venivano a trovarlo da tutte le parti del Paese portavano in regalo i migliori colombi che avevano.

Il colombo che teneva in mano nonno Kuzja era di razza asiatica, veniva dal Tagikistan: un colombo molto forte e anche bello, uno dei più cari sul mercato. L’ho preso in mano e stavo già per lanciarlo, ma nonno Kuzja mi ha fermato:

— Aspetta, lascia che lei salga ancora un po’…

Aspettare significava rischiare di perderla: se salgono troppo in alto, molte colombe cadono giù, morte. Sono abituate a stare in coppia col maschio: senza il maschio che le aiuta a scendere, loro da sole non sono capaci di tornare a terra, devono essere guidate. Quindi bisogna lanciare il colombo nel momento giusto: il maschio sale e la femmina, sentendo come quello batte le ali e fa capriole in aria, comincia a scendere verso di lui. Ma la nostra colomba era già molto lontana.

— Dài, Kolima, adesso! — ha detto nonno Kuzja, e io subito ho fatto un movimento studiato, lanciando con forza il colombo.

— Bene, bravo figliolo, che Gesù Cristo ti benedica! — nonno Kuzja era contento, guardava i colombi avvicinarsi l’uno all’altro in aria. Abbiamo assistito insieme a quella spettacolare unione: il colombo si è esibito in più di venti capriole, e la colomba faceva giri sempre più stretti intorno a lui, toccandolo quasi con le ali. Erano una coppia bellissima.

Alla fine i due si sono uniti nell’aria e uno vicino all’altro hanno cominciato a scendere sempre più in basso, con giri larghi. Nonno Kuzja mi ha guardato in faccia, indicando il mio livido.

— Dài, facciamoci un cifir… — Siamo scesi dal tetto e andati in cucina. Nonno Kuzja ha messo sul fuoco l’acqua per il cifir.

Il «cifir» è un tè molto forte, si prepara e viene bevuto seguendo un antico rituale. Ha un potente effetto stimolante: berne una tazza è come bere di colpo mezzo litro di caffè. Lo si prepara in un pentolino, il cifirbak, che non si usa per nient’altro e che non va mai lavato con i detersivi, ma solo sciacquato in acqua fredda. Se il cifirbak è nero, sporco di residui di tè, è più apprezzato, perché il cifir viene più buono. Quando l’acqua bolle, si spegne il fuoco e si mette dentro tè nero in foglie, non sminuzzato, e rigorosamente proveniente da Irkutsk, in Siberia: li coltivano un tè particolare, il pili forte e gustoso che ci sia, amato dai criminali di tutto il Paese. Ben diverso dal famoso tè di Krasnodar, che piace molto a tutte le casalinghe: un tè debole, diffuso soprattutto a Mosca e nella Russia del sud, buono per la colazione. Per un cifir come si deve si mette fino a un mezzo chilo di foglie di tè. Le foglie devono essere lasciate in infusione per non più di dieci minuti, altrimenti il cifir diventa acido e cattivo. Sul pentolino va messo un coperchio, per non far uscire il vapore; è consigliato avvolgere il tutto con un asciugamano, per mantenere la temperatura. Il cifir è pronto quando non ci sono più foglie galleggianti in superficie: non a caso si dice che il cifir è «caduto» per dire che è pronto. Si filtra tutto con un colino: le foglie di tè non si buttano, si mettono in un piatto e si lasciano lì ad asciugare, serviranno per fare poi un tè normale, che si può bere con zucchero e limone, mangiando un dolce.