Molti nella cella sapevano bene chi era Nebbia e la mia autorità era aumentata perché era circolata la voce che avevo ricevuto una lettera da lui.
Ci ho messo quattro mesi a finire il tatuaggio di Nebbia, e un giorno il mio lavoro è stato visto per caso in infermeria da un vecchio tatuatore della casta Seme nero chiamato zio Kesja, che ogni tanto usciva dal blocco di sicurezza speciale per farsi fare delle iniezioni di farmaci che lo tenevano in vita.
Zio Kesja, utilizzando il suo potere, mi ha fatto avere in cella un pacco con una scatola di tè, sigarette, zucchero e un barattolo di miele. Nella lettera allegata mi faceva mille complimenti e diceva che era contento di vedere un lavoro eseguito da un giovane che non aveva abbandonato le bacchette e le tecniche tradizionali per le macchinette elettriche, da lui definite «sputi del diavolo».
A quel punto, incuriositi e toccati dal rispetto che mi mostrava il vecchio, in tanti hanno cominciato a chiedermi di tatuarli secondo le vecchie tecniche siberiane, anche la gente che era lontana dalla nostra tradizione, persone di caste diverse. Ed era bello vedere come uomini che fino al giorno prima giudicavo profondamente diversi, e con cui pensavo si potessero avere solo rapporti d’affari, riuscivano a farsi vicini: volevano sapere, chiedevano particolari della storia siberiana e del sistema dei tatuaggi; tra di noi si creava una specie di ponte, un collegamento fondato solo sulla curiosità verso un’altra cultura, senza nessun banale interesse legato agli affari criminali.
In quei giorni ho raccontato molte delle storie che da bambino avevo sentito da mio nonno e da altri vecchi. Tanti miei compagni di cella erano gente semplice, finita in prigione per crimini comuni, gente che non aveva dietro nessuna filosofia criminale. Uno di loro, un giovane uomo grande e grosso di nome Sura, stava scontando cinque anni di pena per aver ucciso una persona in circostanze poco chiare. Non amava parlarne, ma era chiaro che erano legate alla gelosia: in poche parole dietro a tutto c’era una storia d’amore e tradimento. Essendo forte, era conteso da diversi gruppi criminali: in prigione le autorità delle caste о delle famiglie cercano sempre di allearsi con le persone forti e intelligenti, per dominare sugli altri. Ma lui stava da solo, non si affiancava a nessuno e viveva la sua triste vita come un eremita. Ogni tanto qualcuno della famiglia siberiana lo invitava a bere il tè о il cifir, e lui veniva con piacere perché — diceva — eravamo gli unici a non proporgli di giocare a carte per poi imbrogliarlo e utilizzarlo come assassino. Parlava pochissimo, di solito ascoltava gli altri quando leggevano le lettere da casa e ogni tanto, quando qualcuno cantava, cantava anche lui.
Dopo la storia del tatuaggio di Nebbia e la mia improvvisa fama, lui ha cominciato a frequentare i siberiani più spesso, quasi ogni sera veniva alle nostre brande e chiedeva se poteva stare un po’ con noi. Una volta è arrivato con una fotografia, l’ha mostrata a tutti: era una vecchia foto che ritraeva un uomo anziano con la barba lunga e un fucile tra le mani. Aveva la cintura siberiana da caccia, con appeso il coltello e la sacca con i portafortuna e i talismani magici. Dietro la foto c’era una scritta: «Fratello Fédot, disperso in Siberia, anima buona e generosa, eterno sognatore e grande fedele», e una data, «1922».
— E mio nonno, era siberiano… Posso fare parte della famiglia siberiana, se mio nonno era uno di voi? — Sembrava molto serio e la sua domanda era priva di ogni ombra di vanità о di qualchev altro sentimento cattivo. Era una vera richiesta d’aiuto: Sura doveva essere stanco di stare da solo.
Gli abbiamo risposto che avremmo esaminato la foto e fatto delle domande a casa, per vedere se qualcuno dei vecchi si ricordava di lui.
Non abbiamo mandato la foto da nessuna parte, non abbiamo chiesto niente a nessuno, in quegli anni in Siberia le vite si perdevano in un grande vortice di storie umane. Abbiamo deciso di aspettare un po’ e poi prendere il gigante nella nostra famiglia: tanto era tranquillo, aveva già scontato due anni senza creare problemi, e non vedevamo nessun motivo per impedire a un essere umano di godere della buona compagnia e fratellanza, se le meritava (anche se le sue radici siberiane trovavano conferma solo in una vecchia foto).
Dopo una settimana gli abbiamo detto che poteva entrare nella famiglia, se prometteva di rispettare le nostre regole e leggi, e gli abbiamo restituito la foto dicendogli che nessuno purtroppo aveva riconosciuto suo nonno. Lui ci ha pensato un po’ su e poi ha confessato, con voce tremula, che la foto non era sua: l’aveva avuta dalla sorella che lavorava in qualche archivio storico, in un’università. Ci ha chiesto scusa per averci imbrogliato, ha detto che a lui piacevamo proprio come persone e che per questo ci teneva cosi tanto a entrare nella nostra famiglia. Mi ha fatto pena, ho capito che oltre a essere molto semplice e poco furbo aveva un’anima buona, non era per niente cattivo. Quelli come lui in prigione di solito morivano nei primi mesi, i più fortunati venivano usati come burattini da qualcuno dei criminali più esperti appartenenti a qualche casta.
Abbiamo avuto pietà di lui. Gli abbiamo permesso di vivere con noi, in famiglia, anche se non era un siberiano vero, perdonandolo perché aveva confessato il suo sbaglio. «Sura è diventato uno di noi», abbiamo annunciato la stessa sera, e tutti in cella erano molto sorpresi di questo fatto.
In poco tempo ha imparato le nostre regole, io gli spiegavo tutte le cose come si fa con i bambini, e lui le scopriva come le scoprono i bambini, senza nascondere il suo stupore.
Quando per me è arrivato il momento di uscire, lui mi ha salutato con affetto e mi ha detto che se non fosse stato per la storia del tatuaggio, non avrebbe mai deciso di affiancarsi ai siberiani e non avrebbe mai scoperto le nostre regole che riteneva giuste e oneste.
«Forse il mio umile mestiere gli ha salvato la vita, — ho pensato, — senza la famiglia in prigione sarebbe morto in una rissa».
Per me era una cosa molto seria, il tatuaggio. Per tanti miei amici era un gioco, gli bastava vedere qualche scarabocchio sulla pelle ed erano contenti. Altri la prendevano un po’ più sul serio, ma mica tanto.
Se ne parlava così, tra minorenni:
— E mio padre ha un gufo grande che tiene un teschio nelle zampe…
— Gufo significa rapinatore, te lo dico io…
— E teschio?
— Dipende.
— Ragazzi, lo so io, gufo con teschio significa rapinatore e assassino, ve lo giuro!
— Ma non raccontare balle! Rapinatore e assassino è una faccia di tigre con foglie di quercia, ne ha una mio zio!
Insomma si sparava un po’ a caso, cercando d’indovinare.
Per me invece era proprio un’altra storia, una storia complicata. Mi piacevano i soggetti che lasciavano traccia della mano che li aveva eseguiti. Per questo chiedevo a mio padre, ai miei zii e ai loro amici di raccontarmi dei tatuatori che avevano conosciuto. Studiavo i loro tatuaggi, cercando di capire quali erano state le tecniche che avevano usato per ottenere effetti diversi. Ne parlavo poi con il mio maestro, nonno Lèsa, che mi aiutava a capire meglio le tecniche degli altri e m’insegnava ad adattarle al mio modo di vedere i soggetti, di disegnarli, di tatuarli sulla pelle.
Lui era contento, perché vedeva che m’interessavano i soggetti non solo per motivi legati alla tradizione criminale, ma anche per il loro valore artistico.
Già nella fase di studio dei disegni, ho cominciato a chiedermi e a chiedergli perché ogni tatuaggio non poteva essere inteso esclusivamente come un’opera d’arte, piccola о grande che fosse. Il mio maestro mi rispondeva che la vera arte è una forma di protesta, quindi ogni opera d’arte deve creare contraddizioni, far discutere. Per la sua filosofia, il tatuaggio criminale era la forma d’arte più pura che esisteva al mondo. La gente — diceva — odia i criminali, però ama i loro tatuaggi.