Boris non sapeva niente di questa situazione, perché la sua mente di bambino non contemplava la realtà, tanto più la realtà fatta di violenza brutale e di logiche politico-militari.
Lui voleva guidare il suo treno, e lo faceva anche di notte, perché come altri treni in tutto il mondo, pure il suo treno a volte andava avanti di notte… Una sera, mentre andava verso la ferrovia, i militari gli hanno sparato alla schiena come dei vigliacchi, senza neanche uscire dalla macchina blindata, e l’hanno lasciato morto sulla strada.
Quando l’ho saputo mi sono sentito subito adulto, qualcosa dentro di me è morto per sempre: l’ho avvertito molto bene, è stata una sensazione quasi fisica, quando attraverso il tuo corpo ti rendi conto che certe idee, fantasie, comportamenti, non li riavrai mai più, per colpa del peso che ti è caduto sulle spalle.
Mio nonno è impallidito e tremava dalla rabbia, non è stato così male neanche quando hanno ammazzato mio zio, suo figlio. Continuava a ripetere che quella gente era maledetta, che la Russia stava diventando un inferno, perché gli sbirri ammazzavano gli angeli.
Mio padre e altri uomini del quartiere sono andati nella zona degli sbirri, e a notte fonda, quando si sono spente le luci nelle loro baracche, hanno scaricato lì dentro un inferno di piombo. Era un manifesto della rabbia cieca e totale, un disperato grido di dolore. Hanno ammazzato qualche sbirro, ne hanno feriti un casino, ma cosi purtroppo hanno solo fatto vedere a tutta la Russia che la presenza della polizia da noi era davvero necessaria.
Nessuno sapeva cosa succedeva veramente in Transnistria, le notizie in televisione presentavano le cose in maniera tale che, dopo aver guardato quella merda, anche a me veniva il dubbio che tutto quello che conoscevo fosse irreale.
Mi ricordo il corpo di Boris quando lo hanno portato a casa, raccogliendolo dalla strada. Era la cosa più triste che avessi mai visto.
Sulla faccia gli era rimasta un’espressione di paura e dolore che non gli avevo mai visto prima. La sua maglietta con le colombe era bucata dai proiettili e piena di sangue. Teneva il suo cappello da macchinista ancora stretto tra le mani. La posizione del corpo era scioccante: per morire si era messo come i neonati, le ginocchia al petto, stringendosi tutto. Si capiva che negli ultimi istanti doveva aver sentito un dolore forte. Gli occhi erano spalancati e gelidi, conservavano una paura disperata che si trasformava in una specie di domanda: «Perché mi sento cosi male?»
L’abbiamo sepolto nel cimitero del nostro quartiere.
C’era il mondo, al suo funerale, gente arrivata da tutta la Transnistria. Da casa sua al cimitero si è formata una grande fila e secondo una vecchia tradizione siberiana la sua bara è stata portata fino alla tomba passando di mano in mano, tra la gente… Tutti baciavano la sua croce, molti piangevano, chiedevano con rabbia giustizia. La sua povera madre guardava tutto e tutti con occhi impazziti.
Un anno dopo, le cose sono peggiorate. Gli sbirri si sono messi a eliminare i criminali alla luce del sole, a sparare per strada. Io ho avuto la mia seconda condanna minorile e, quando sono uscito, non riconoscevo più il posto dov’ero nato. Dopo mi sono capitate molte cose, ma passando tra tutte le esperienze ho continuato a pensare che la legge siberiana aveva ragione: nessuna forza politica, nessun potere imposto con una bandiera vale tanto quanto la libertà naturale di una singola persona. Quanto la libertà naturale di Boris.
Il giorno del mio compleanno
Noi ragazzi di Fiume Basso vivevamo davvero seguendo le leggi criminali siberiane, avevamo un robusto sentimento religioso ortodosso, con un’influenza pagana molto forte, e venivamo chiamati da tutto il resto della città «Educazione siberiana» per i nostri modi di fare. Non dicevamo parolacce, non offendevamo mai il nome di Dio о della madre, non parlavamo senza rispetto di una persona anziana, di una donna incinta, di un bambino piccolo, di un orfano о di un disabile. Eravamo abbastanza inquadrati e a dire la verità non avevamo bisogno delle parolacce per sentirci adulti come i nostri coetanei di altri quartieri, perché eravamo trattati come se facessimo veramente parte della comunità criminale, eravamo una vera banda, composta da minorenni, con la gerarchia del modello criminale e con le responsabilità che i criminali adulti ci avevano dato.
Il compito che avevamo era fare le sentinelle. Andavamo in giro per la nostra zona, passavamo tanto tempo ai confini con gli altri quartieri e comunicavamo agli adulti ogni movimento anomalo. Se nel quartiere passava un tipo sospetto, un poliziotto, un infame, un criminale di un altro quartiere, le nostre autorità adulte lo sapevano in pochi minuti.
Quando arrivavano i poliziotti, di solito gli bloccavamo la strada, ci mettevamo seduti о sdraiati davanti alle loro macchine costringendoli a fermarsi. Quelli uscivano e ci spostavano a calci nel sedere о tirandoci per le orecchie, noi facevamo la lotta con loro. Di solito sceglievamo il più giovane e ci buttavamo addosso a lui in tanti, qualcuno lo picchiava, qualcuno si attaccava a un braccio mordendolo, un altro si aggrappava alla schiena e gli portava via il cappello, un altro ancora gli strappava i bottoni della divisa о gli tirava fuori la pistola dalla custodia. Andavamo avanti così finché lo sbirro non andava in esaurimento, о finché i suoi colleghi non cominciavano a picchiare sul serio.
I più sfortunati di noi si beccavano delle manganellate in testa, perdevano un po’ di sangue e via.
Una volta un mio amico ha tentato di rubare la pistola dalla custodia di un poliziotto, quello gli ha bloccato la mano in tempo, solo che l’ha stretta così forte che il mio amico ha premuto il grilletto e involontariamente gli ha sparato nella gamba. Appena abbiamo sentito lo sparo ci siamo messi a correre da tutte le parti, e mentre correvamo quegli imbecilli hanno iniziato a spararci dietro. Per fortuna non hanno colpito nessuno di noi, ma correndo sentivo le pallottole passarci vicine. Una è finita contro il marciapiede, staccando un pezzo di cemento che mi ha colpito in faccia. La ferita era piccola e per niente profonda, dopo non mi hanno dato neanche un punto, però per qualche strana ragione da quel buco usciva un casino di sangue e quando siamo arrivati davanti a casa del mio amico Mei, sua mamma, zia Irina, mi ha preso in braccio e ha cominciato a correre verso casa dei miei, gridando per tutto il quartiere che i poliziotti mi avevano sparato in testa. Inutilmente cercavo di calmarla, era troppo presa dalla corsa, e alla fine, a qualche metro da casa, attraverso il sangue che mi copriva gli occhi, ho visto mia mamma diventare pallida come la morte, con un aspetto già da funerale. Quando zia Irina si è fermata davanti a lei, io mi sono girato come un serpente per liberarmene e ho fatto un salto dalle sue braccia, atterrando in piedi.
Mia mamma mi ha guardato la ferita e mi ha detto di entrare in casa e poi ha dato a zia Irina un calmante, per toglierle l’agitazione.
Si sono sedute vicine sulla panchina nel cortile, bevendo valeriana e piangendo tutte e due. Io allora avevo nove anni.
Un’altra volta i poliziotti sono usciti tutti dalle macchine, per sbarazzarsi di noi in fretta. Ci hanno preso per le gambe о per le braccia e ci hanno lanciato sul bordo della strada; noi ci alzavamo e tornavamo al centro, e gli sbirri ricominciavano uguale. Per noi era un gioco infinito.
Uno dei miei amici ha approfittato di un attimo di distrazione di uno sbirro e ha tirato giù il freno a mano della sua macchina. Eravamo in cima a una piccola collina, su una strada che portava al fiume, cosi la macchina è partita come un missile e i poliziotti l’hanno guardata impietriti ma con le facce arrabbiatissime fare tutto il percorso, entrare in acqua e _ ~ sparire come un sottomarino. A quel punto siamo spariti anche noi più in fretta del solito, per non beccarci troppe botte.