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Una volta ho consegnato una firma con un ordine che proveniva dalle galere della Siberia, ed era indirizzato alle galere dell’Ucraina. Ai criminali ucraini veniva ordinato di rispettare in carcere alcune regole, ad esempio venivano proibite le relazioni omosessuali e le punizioni di singoli detenuti tramite umiliazioni fisiche о di carattere sessuale. In calce a quella lettera avevano messo le loro firme trentasei autorità criminali siberiane. La firma capitata nelle mie mani era una delle tante copie di quel documento, destinato a essere riprodotto e diffuso tra tutti i criminali in prigione e in libertà nel territorio dell’Urss.

Un’altra forma di comunicazione, chiamata «lancio», avveniva attraverso la consegna di certi oggetti.

In pratica veniva dato a un messaggero qualsiasi, anche minorenne, un oggetto che nella comunità criminale aveva un significato particolare. Il compito del messaggero era portarlo al destinatario dicendo chi lo mandava, non c’era bisogno di aspettare una risposta.

Un coltello rotto significava la morte di qualcuno della banda, una persona vicina, ed era un gran brutto segno. Una mela tagliata a metà era un invito a dividere il bottino. Un pezzo di pane secco dentro un fazzoletto di stoffa, invece, era un avvertimento preciso: «Attento, le forze dell’ordine sono vicine, c’è stata una svolta importante nel caso che ti riguarda». Un coltello avvolto in un fazzoletto era un invito all’azione per un assassino a pagamento. Un pezzo di corda con un nodo stretto in mezzo significava: «Non sono responsabile di quello che sai». Un po’ di terra dentro un fazzoletto voleva dire: «Ti prometto che manterrò il segreto».

Esistevano significati più semplici e significati più complessi, «buoni» — ad esempio a scopo di protezione — e «brutti» — offese о minacce di morte.

Se qualcuno sospettava che una persona avesse rapporti che compromettevano la sua dignità criminale, magari con la polizia о con altre comunità criminali (senza il permesso della propria), gli recapitavano una piccola croce insieme a un chiodo, о in casi estremi un topo morto, a volte con in bocca una monetina о una banconota, segno inequivocabile della promessa di punizione estrema. Quello era il «lancio brutto», il peggiore: morte sicura.

Se invece volevi invitare un amico a far festa, per divertirsi, bere e passare il tempo in allegra compagnia, gli mandavi un bicchiere vuoto. Quello era un «lancio buono».

Io portavo spesso messaggi di questo genere, mai niente di brutto. Più che altro comunicazioni organizzative, inviti, promesse.

Tra i compiti che avevamo c’era anche quello di cercare di organizzarci in maniera decente per portare avanti il glorioso nome del nostro quartiere: in parole semplici, dovevamo essere capaci di seminare il caos tra i minorenni degli altri quartieri.

La cosa andava fatta nel modo giusto, perché la nostra tradizione vuole che la violenza sia sempre motivata, anche se poi il risultato finale non cambia, perché una testa spaccata resta una testa spaccata.

Con noi lavoravano i vecchi, i criminali anziani che si erano ritirati e vivevano grazie al sostegno dei criminali più giovani. Da eccentrici pensionati, si occupavano di noi minorenni e della nostra identità criminale.

Ce n’erano tanti nel quartiere, e tutti provenivano dalla casta degli Urea siberiani: seguivano la vecchia legge, disprezzata dalle altre comunità criminali perché obbligava a una vita umile e degna, piena di sacrifici, dove al primo posto si mettevano ideali come la moralità e il sentimento religioso, il rispetto verso la natura e verso la gente semplice, i lavoratori e tutti quelli che venivano usati о sfruttati dal governo e dalla classe dei ricchi.

I ricchi noi li chiamavamo con un’antica parola siberiana, upiri, creature della mitologia pagana che abitano nelle paludi e nei boschi profondi e si nutrono di sangue umano: veri e propri vampiri siberiani.

Per questo la nostra tradizione c’impediva di compiere crimini basati sull’accordo preso con la vittima, perché era considerato indegno comunicare con i ricchi e i rappresentanti del governo, che potevano essere solo aggrediti о uccisi, ma mai minacciati о costretti ad accettare accordi. Quindi reati come l’estorsione, il racket о il controllo di attività illecite attraverso taciti accordi con la polizia e il Kgb erano decisamente disprezzati. Si facevano solamente rapine e furti, nei traffici illeciti non si prendeva nessun accordo con nessuno, insomma erano gestiti in maniera autonoma.

Ma le altre comunità non ragionavano cosi, soprattutto le nuove generazioni si comportavano alla maniera europea e americana; era gente priva di moralità che rispettava solamente i soldi e a tutti i costi cercava di creare un sistema criminale a piramide, una specie di monarchia criminale, a differenza del nostro sistema che poteva essere paragonato a una rete, dove tutti sono legati tra loro e nessuno ha potere personale, ognuno fa la sua parte nell’interesse comune.

Già quando io ero minorenne in molte comunità crimina li i singoli membri dovevano meritarsi il diritto alla parola, altrimenti erano trattati come persone inesistenti. Invece nella nostra comunità il diritto alla parola ce l’avevano tutti, anche le donne, i minorenni, i disabili e i vecchi.

La differenza tra l’educazione che avevamo ricevuto noi e l’educazione (o l’assenza di educazione) dei membri di altre comunità creava un vuoto, una distanza immensa tra di noi. Per questo, anche se non ne eravamo consapevoli, sentivamo il bisogno di far valere i nostri principi e le nostre leggi, e di costringere gli altri a rispettarle, a volte anche con la violenza.

In città facevamo sempre casino, quando andavamo in un altro quartiere spesso finiva in rissa, con sangue per terra, bastonate e coltellate da tutte le parti. Avevamo una fama bestiale, tutti avevano paura di noi e molte volte eravamo aggrediti proprio per via di questa paura, perché si trova sempre qualcuno che vuole andare contro gli istinti naturali, tentare il destino, cercare di vincere la propria paura buttandosi contro il motivo che la provoca.

Non sempre finiva in rissa, certe volte grazie alla diplomazia riuscivamo a convincere qualcuno a cambiare idea, allora tutto si limitava a qualche schiaffo che volava dalle due parti, e a quel punto si cominciava a parlare. Era bello quando finiva cosi. Ma più spesso finiva nel sangue, e in una catena di relazioni rovinate con un intero quartiere, relazioni che dopo la loro morte era molto difficile rianimare.

I nostri vecchi ci avevano insegnato bene.

Come prima cosa, bisognava rispettare tutti gli esseri viventi, categoria in cui non rientravano i poliziotti, la gente legata al governo, i bancari, gli usurai e tutti coloro che avevano tra le mani il potere del denaro e sfruttavano le persone semplici.

Poi bisognava credere in Dio e in Suo Figlio Gesù, e amare e rispettare gli altri modi di credere in Dio diversi dal nostro. Ma la Chiesa e la religione non dovevano mai essere considerate una struttura. Mio nonno diceva che Dio non ha creato i preti, ma solamente uomini liberi, e che comunque esistono anche preti buoni: in quel caso non è peccato andare nei luoghi dove loro svolgono la loro attività, ma è senz’altro peccato pensare che davanti a Dio i preti abbiano più potere di altri uomini.

Infine, non dovevamo fare agli altri quello che non volevamo fosse fatto a noi: ma se un giorno eravamo obbligati a farlo, doveva esserci un buon motivo.

Uno dei vecchi con cui parlavo tanto di queste cose, voglio dire della nostra filosofia di vita e della nostra primitiva ignoranza, diceva che secondo lui il nostro mondo era pieno di persone che seguivano strade sbagliate, e che dopo aver fatto un passo falso si allontanavano sempre più dalla retta via. Lui era dell’idea che in molti casi era inutile cercare di farli ritornare sulla strada giusta, perché erano troppo lontani, e l’unica cosa che rimaneva da fare era sospendere la loro esistenza, «toglierli dalla strada».