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— Uno che è ricco e potente, — diceva il vecchio, — camminando sulla sua strada sbagliata rovina tante vite, mette nei guai tante persone che in qualche maniera dipendono da lui. L’unico modo per far tornare tutto al suo posto è ucciderlo, e cosi distruggere il potere che ha costruito sul denaro.

Io ribattevo:

— E se anche l’omicidio di questa persona fosse un passo falso? Non sarebbe meglio evitare di avere contatti con lui e basta?

Il vecchio mi guardava stupito, e rispondeva con tale convinzione che mi girava la testa:

— Ragazzo, chi ti credi di essere, Gesù Cristo? Soltanto Lui può fare miracoli, noi dobbiamo solo servire Nostro Signore… E quale servizio migliore di togliere dalla faccia del mondo i figli di Satana?

Era troppo buono, quel vecchio.

Insomma, per via dei nostri vecchi eravamo sicuri di essere nel giusto. «Piangano quelli che ci vogliono male, — pensavamo, — perché Dio è con noi»: avevamo mille modi tutti particolari per giustificare le nostre violenze e i nostri comportamenti.

Il giorno del mio tredicesimo compleanno, però, mi è successa una cosa che mi ha fatto venire qualche dubbio.

Tutto è cominciato cosi: la mattina di quel freddo e gelido giorno di febbraio, il mio amico Mei si è presentato a casa mia chiedendomi di accompagnarlo dall’altra parte della città, nel quartiere Ferrovia, dove per ordine del Guardiano della nostra zona doveva portare un messaggio a un criminale.

Il Guardiano gli aveva detto che poteva farsi accompagnare da una sola persona, non di più, perché portare messaggi in gruppo è maleducato, è considerata un’esibizione di violenza, quasi una minaccia. E Mei purtroppo aveva scelto me.

Io non avevo nessuna voglia di trascinarmi fin là nel freddo, tanto più il giorno del mio compleanno: avevo già fissato l’appuntamento per quella sera con tutto il branco per fare una festa a casa di mio zio, che era vuota perché lui era in galera. Mi aveva lasciato casa sua e io potevo farci tutto il casino che volevo: bastava tenerla pulita, dare da mangiare ai suoi gatti e bagnargli i fiori.

Quella mattina volevo occuparmi dei preparativi per la festa, e quando Mei mi ha chiesto di accompagnarlo mi sono sentito proprio giù di morale. Ma non potevo rifiutare, sapevo che era troppo stordito e che da solo avrebbe combinato qualche guaio. Cosi mi sono vestito, abbiamo fatto colazione insieme e siamo partiti per il quartiere Ferrovia. C’era troppa neve, non si poteva usare la bicicletta, cosi siamo andati a piedi. Il pullman io e i miei amici non lo prendevamo mai perché ci toccava aspettarlo troppo, si faceva più in fretta a piedi. Camminando di solito si parlava di tante cose, di quello che succedeva nel quartiere о in città. Ma con Mei era molto difficile parlare, perché Madre Natura lo aveva reso incapace di creare frasi comprensibili. Diceva cose che io non ho il coraggio di tradurre dal russo all’italiano perché non saprei come seguire il filo, anzi l’assenza di filo, del discorso.

Le nostre conversazioni avevano una forma di dialogo che era tenuto su esclusivamente da me, con corti inserimenti suoi tipo «Da», «А-ha», «M-m-m» e altre unità minime di suono che lui riusciva a emettere senza nessuna fatica.

Ogni tanto Mei si fermava improvvisamente, si bloccava, e la sua faccia diventava una specie di maschera di cera tutta colata da una parte: significava che non aveva capito di cosa stavo parlando. Allora dovevo fermarmi immediatamente anch’io e partire con le spiegazioni: solo allora Mei tornava ad avere la sua faccia di sempre e riprendeva a muoversi, a camminare.

Non che la sua faccia di sempre fosse un granché: era attraversata da una cicatrice ancora fresca e al posto dell’occhio sinistro aveva un buco. A conciarlo cosi era stato un incidente: aveva fatto tutto da solo, maneggiando in modo maldestro la carica di un proiettile antiaereo che gli era esploso a pochi centimetri dal viso. Il calvario dei microinterventi chirurgici per ricostruirgli il volto non era ancora terminato, e Mei all’epoca girava ancora con quell’orrendo, enorme buco nero al posto dell’occhio mancante. L’occhio finto, di vetro, l’avrebbe messo solo tre anni più tardi.

Mei era così in tutto, non aveva un collegamento tra il corpo e la mente, quando pensava doveva stare fermo, altrimenti non riusciva ad arrivare a una conclusione decente, e se stava facendo un qualsiasi movimento non era in grado di pensare. Per questo io, un po’ per scherzo un po’ sul serio, lo chiamavo «asino»: un gesto molto cattivo e indegno da parte mia, lo riconosco, ma se mi permettevo un simile comportamento era solo perché mi toccava sopportarlo dalla mattina alla sera, e spiegargli tutto come a un bambino. Lui non si offendeva, ma diventava serio di colpo, come se stesse pensando al misterioso motivo per cui gli davo del somaro. Una volta mi ha scioccato, quando dal niente, in una situazione che non c’entrava nulla con il fatto che di solito lo chiamavo «asino», improvvisamente mi ha detto:

«Ho capito perché mi chiami cosi! Perché secondo te ho le orecchie troppo lunghe!»

A quel punto si è incazzato e si è messo a difendere le dimensioni delle sue orecchie.

10 non ho risposto niente, mi sono limitato a guardarlo.

Era irrecuperabile, e aggravava la situazione fumando e bevendo come un vecchio alcolizzato.

Insomma, io e Mei quella mattina di febbraio camminavamo per le strade coperte di neve. Quando c’è poca umidità la neve è molto secca e fa un rumore ridicolo, quando ci cammini sopra è come se stessi camminando sui cracker.

11 mattino era pieno di sole e il cielo vuoto prometteva una giornata buona, ma tirava un vento leggero e costante che avrebbe potuto ribaltare le previsioni.

Abbiamo deciso di attraversare il quartiere Centro e di fermarci a mangiare un boccone in un posticino — una via di mezzo tra un bar e un ristorante — gestito da zia Katja, la mamma di un nostro buon amico che era morto l’estate prima, annegato nel fiume.

Andavamo spesso a trovarla, e per non farla sentire sola le raccontavamo come stavano le cose nella nostra vita. Lei ci voleva bene, anche perché il giorno in cui suo figlio è annegato eravamo insieme e quella storia, anche se era segnata da un enorme dolore, ci aveva uniti tutti quanti.

Il corpo di Vitalic (cosf si chiamava il nostro amico) non era stato trovato subito. Le ricerche erano state difficili perché due giorni prima, cento chilometri più su, era crollata una grossa diga.

Questa è un’altra storia, ma è una storia che va raccontata.

Era estate, e faceva molto caldo. La diga ha ceduto di notte, e io mi ricordo che mi sono svegliato perché ho sentito un rumore spaventoso, come di una tempesta in arrivo.

Siamo usciti dalle case e abbiamo capito che il rumore veniva dal fiume. Siamo andati a vedere e abbiamo trovato un disastro: gigantesche ondate d’acqua bianca, come di schiuma, arrivavano sempre più forti, sbattevano contro la riva e si portavano via barche e battelli.

Qualcuno aveva con sé una pila e con quella illuminava il fiume, c’erano tanti oggetti nell’acqua che giravano come dentro a una grande lavatrice: mucche, barche, tronchi d’albero, botti di ferro, stracci e pezzi di stoffa che sembravano lenzuola. Qua e là, in quel disastro d’acqua, spuntavano dei mobili. Si sentivano delle urla.

Il nostro quartiere per fortuna si trovava sulla riva alta, e l’onda di piena non ci era arrivata addosso in maniera devastante: era tutto allagato anche da noi, le case e le cantine erano piene d’acqua, ma senza grossi danni.

Il giorno dopo il fiume era sporchissimo, e noi abbiamo deciso di prenderci l’impegno di pulirlo, di togliere quello che riuscivamo usando le nostre forze. Avevamo a disposizione alcune barche a motore risparmiate dall’ondata, perché quando la diga aveva ceduto si trovavano a riva.