Выбрать главу

La donna ha cominciato a piangere, urlando e buttandosi sul corpo del morto. Lo abbracciava, lo baciava. Anche la sua bambina ha cominciato a piangere, ma piano, come se si vergognasse di noi.

Alla fine i moldavi si sono presentati e hanno anche detto il nome del morto, che ora non ricordo più.

Il fratello dell’annegato ha cercato di tranquillizzare la donna, l’ha portata in macchina, ma lei continuava a piangere e a urlare anche da li.

I tre uomini hanno caricato il corpo sul sedile posteriore della loro macchina. Hanno ringraziato e ci hanno offerto dei soldi, ma noi li abbiamo rifiutati. Qualcuno di noi gli ha riempito il bagagliaio di bottiglie, e loro ci hanno guardati con una domanda negli occhi.

«Così risparmierete sulle bibite il giorno del funerale», gli abbiamo detto.

A quel punto sono esplosi in mille ringraziamenti. La donna si è messa a baciarci le mani e noi, per sottrarci a tutti quei baci, siamo tornati al lavoro.

Altra gente, intanto, cercava i propri morti. Qualcuno di loro ci ha offerto il suo aiuto e noi l’abbiamo accettato: poveracci, speravano di assistere al recupero dei corpi dei loro cari. Ma non è semplice trovare un morto annegato, di solito per almeno tre giorni i corpi stanno sott’acqua, e solamente dopo, quando cominciano a putrefarsi e si riempiono di gas, risalgono in superficie. Era stato un puro caso se avevamo trovato il corpo di quel povero moldavo, doveva essere stato spinto a galla da una forte corrente, e se non lo avessimo acchiappato subito sarebbe certo tornato sott’acqua.

Vitalic con altri cinque ragazzi stava trascinando a riva un albero con tanti rami che spuntavano dall’acqua: si capiva che sotto doveva essere enorme.

Avevano deciso di girarlo al contrario, con la chioma verso riva, per dare più punti d’appiglio a quelli che dovevano afferrarlo da terra.

Mentre lo stavano girando, Vitalic è rimasto impigliato con un piede tra quei rami. E riuscito a urlare, ad avvertire gli altri che era rimasto incastrato, ma improvvisamente l’albero ha funzionato come un’elica: si è ribaltato con tutto il suo peso portando Vitalic sott’acqua.

Non riuscivamo a crederci.

Tutti si sono buttati in acqua per tirarlo fuori, ma lui non c’era già più, né attaccato all’albero né altrove, nel raggio di molti metri.

A quel punto abbiamo immediatamente chiuso con la rete la zona H intorno, per evitare che la corrente lo portasse via. Poi abbiamo cominciato a esplorare il fondale.

Ci buttavamo nell’acqua sporca, dove non si vedeva niente, rischiando di andare a sbattere contro qualcosa. Uno di noi infatti è stato colpito da un tronco, ma per fortuna non troppo forte.

Di Vitalic, però, nessuna traccia.

Dopo dieci minuti di inutili ricerche, ci siamo guardati con rabbia.

Mi ricordo che continuavo a tuffarmi in acqua: scendevo giù, fino al fondo, cinque о sette metri, e cercavo con le mani nel vuoto.

A un certo punto ho trovato qualcosa, una gamba! L’ho stretta forte, appoggiandola al mio corpo, e piegandomi ho puntato i piedi sul fondale; mi sono dato una bella spinta, come se liberassi di colpo una molla, dopo di che in un attimo mi sono ritrovato in superficie.

Soltanto lì ho capito che avevo afferrato la gamba di Mei. La sua testa spuntava dall’acqua e lui mi guardava con una faccia stupita.

Mi sono arrabbiato e l’ho colpito con un pugno in testa. Lui mi ha risposto nello stesso modo, e mi ha fatto parecchio male.

Non siamo riusciti a trovarlo, il corpo di Vitalic, nella prima ora di ricerche.

Eravamo tutti stanchi e nervosi, molti si sono messi a litigare tra loro: volavano le offese, ognuno voleva scrollarsi di dosso la colpa scaricandola sugli altri. In momenti come quelli, di slealtà totale verso tutti, cominci a vedere quali sono le vere facce delle persone, e ti viene uno schifo per quel lo che sei e per dove ti trovi.

Io non sentivo più le braccia e le gambe, non riuscivo più a nuotare, allora sono tornato a riva e mi sono sdraiato.

Non ricordo come, ma mi sono addormentato.

Quando mi sono svegliato era sera. Qualcuno mi stava chiedendo se stavo bene. Era il mio amico Gigit, aveva una bottiglia di vino in mano.

Gli altri erano seduti davanti al fuoco e si stavano ubriacando.

Mi sono sentito di nuovo pieno di forze e ho chiesto a Gigit se il corpo di Vitalic era stato trovato. Lui ha fatto un segno negativo con la testa.

Allora sono andato dagli altri e gli ho chiesto perché si ubriacavano, quando il corpo del nostro amico stava ancora nel fiume.

Mi hanno guardato con indifferenza, qualcuno era ciucco marcio, i più erano stanchi e depressi.

«Sentite, — ho detto, — io adesso vado a mettere le reti alla Falce».

La Falce era un posto a una ventina di chilometri più giù, sul fiume. La chiamavano cosi perché in quel punto il fiume faceva una curva larga che assomigliava a una falce. In quell’ansa l’acqua si fermava e allagava la riva, cosi la corrente sembrava quasi ferma.

Tutto quello che portava via la corrente prima о poi arrivava li. Bloccando con la rete il passaggio sul fondo, si poteva recuperare il corpo di Vitalic.

L’unico problema era che con l’alluvione il fiume si era riempito di tutta quella roba, e allora bisognava cambiare la rete in continuazione, altrimenti si riempiva troppo e rischiavi di romperla, mentre la tiravi su.

Con me sono venuti anche Mei, Gigit, Besa e Muto. Siamo andati con le mie due barche, con la mia rete e con quella di Mei.

Le reti che vengono usate per pescare gli annegati dopo vanno buttate via, о conservate solo per essere usate in un’altra occasione triste.

Io avevo una decina di reti diverse per usi diversi, le migliori erano quelle da fondo, che potevano sopportare grandi pesi e stare in acqua tanto tempo. Avevano tre strati sovrapposti, per un maggior effetto di cattura, ed erano molto spesse.

Ho preso la migliore rete da fondo che avevo e siamo partiti.

Abbiamo buttato la rete tutta la notte, la pulivamo in continuazione dalla sporcizia: c’era di tutto sul fondo del fiume, tante carcasse di animali diversi. Ma il peggio erano i rami, perché quando s’infilavano nella rete era difficile toglierli e rompevano le maglie.

Fino a mattina abbiamo avuto le mani fradice, non facevamo in tempo ad asciugarle che si bagnavano di nuovo, perché appena finivi di pulire la rete da una parte era già piena dall’altra, allora correvi di là, e appena la svuotavi dovevi tornare dov’eri prima.

A un certo punto è arrivato Gagarin con gli altri, per darci il cambio. Eravamo stanchi, cascavamo dal sonno. Ci siamo buttati subito a terra, nell’erba, e ci siamo addormentati all’istante.

Verso le quattro di pomeriggio, Gagarin e gli altri hanno trovato il corpo di Vitalic.

Era tutto pieno di graffi e di tagli, il piede destro era rotto, con un pezzo d’osso che fuoriusciva. Vitalic era blu, come tutti gli annegati.

Abbiamo chiamato la gente del nostro quartiere. Lo hanno portato a casa, da sua mamma. Siamo andati anche noi, per raccontarle com’era successo. Lei era disperata, piangeva senza fermarsi e ci abbracciava tutti insieme, stringendoci forte fino a far male. Penso che lei abbia capito da sola, о forse glielo aveva detto qualcuno dei ragazzi del Centro, quanto ci eravamo sbattuti per trovare il corpo di suo figlio.

Ci ringraziava di continuo, e mi faceva effetto sentirla dire:

«Grazie, grazie che me lo avete portato a casa».

Non riuscivo a guardarla in faccia, sapendo che non avevo fatto tutto il possibile per trovare il corpo di suo figlio.

Eravamo tutti scioccati, sconvolti. Non riuscivamo neanche a pensarlo, che il destino ci aveva tolto una persona come Vitalic.

E così, quando eravamo nei paraggi del Centro, passavamo sempre da zia Katja, la mamma di Vitalic.

Non era sposata: il suo primo compagno, il padre di Vitalic, non aveva fatto in tempo a sposarla perché era stato arruolato nell’esercito e spedito in Afghanistan, dov’era stato dato per disperso quando lei era ancora incinta.