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Quello era il suo modo di darci il benvenuto, in fondo ci voleva un casino di bene a tutti quanti.

Si divertiva anche lui, a non farsi prendere in giro da noi. Ci provavamo sempre, ma Bosja, con la sua saggezza e la sua furbizia ebraica, che nel suo caso aveva qualcosa di umile e vissuto, ci faceva cadere nella sua trappola, e certe volte lo capivamo solo più tardi, dopo che eravamo usciti. Era un genio nelle relazioni, un vero genio.

Visto che si lamentava sempre di essere cieco e sordo, lo provocavamo chiedendogli l’ora, sperando che lui guardasse l’orologio che aveva al polso. Ma lui non faceva neanche una piega, e rispondeva:

«Ma come faccio a sapere che ore sono, se sono una persona felice? Lo sapete che le persone felici non contano il tempo, perché nella loro vita ogni momento scorre con piacere?»

Allora noi gli chiedevamo perché portava l’orologio, se non lo guardava mai, se non gli importava dello scorrere del tempo.

Lui faceva la faccia stupita e guardava il suo orologio come se lo vedesse per la prima volta, e poi rispondeva con tono umile:

«… Ma questo non è mica un orologio… E più vecchio di me ormai, non so neanche se funziona…»

Lo appoggiava all’orecchio, lo teneva un po’ li e poi aggiungeva:

«… Beh, qualcosa si sente, ma non so se è il ticchettio delle lancette о quello del mio vecchio cuore che se ne sta andando…»

La moglie di Bosja era una vecchia e simpatica signora ebrea che si chiamava Elina. Era una donna molto intelligente, per tanti anni aveva fatto la maestra ed era stata l’insegnante di mio padre e dei suoi fratelli. Parlavano tutti di lei con affetto, e anche a molti anni di distanza rispettavano ancora la sua autorità. Quando mio padre ha ucciso per la prima volta due poliziotti lei lo ha riempito di sberle, e lui si è messo in ginocchio ai suoi piedi per chiederle perdono.

Bosja aveva una figlia, la ragazza più bella che abbia mai visto: si chiamava Faja e faceva anche lei la maestra, insegnava lingue straniere, inglese e francese. Era cresciuta con l’idea di essere malata, perché Bosja ed Elina le avevano proibito di fare tutto quello che facevano i bambini normali, motivando ogni divieto con le parole «Non puoi perché non stai bene». Non si era sposata e viveva ancora con i genitori, era una persona tranquilla e molto solare. Aveva un fisico da dea, fianchi e curve che sembravano disegnati, tanto erano perfetti, una bocca favolosa, piccola e con le labbra leggermente aperte, ben definite, grandi occhi neri, capelli mossi, lunghi fino al fondoschiena. Ma la cosa più spettacolare era come si muoveva, sembrava una gatta, faceva ogni gesto con una grazia tutta sua.

Ero ossessionato da lei, e ogni volta che la vedevo al negozio cercavo un pretesto per starle vicino. Andavo a parlarle delle piante о di qualunque altra cosa, per sentire la sua presenza con la pelle.

Lei mi sorrideva, parlava volentieri con me, capivo di esserle simpatico. Solo pili tardi, a sedici anni, ho trovato il coraggio di avvicinarla davvero, parlando di letteratura. Abbiamo cominciato a vederci, a scambiarci libri, e nel giro di poco tempo abbiamo sviluppato un rapporto che di solito le persone educate chiamano «intimo», ma che nel mio quartiere si definiva con ben altre parole: «sporcare le lenzuola insieme».

Ma questa è un’altra storia, che merita di essere raccontata a parte, e non qui.

Qui invece va raccontata la storia che il vecchio Bosja aveva alle spalle.

Il vecchio Bosja, ai tempi della sua gioventù, era un bander: cosi a inizio secolo si chiamavano i membri della criminalità organizzata ebraica. La parola viene da «banda», che in russo e in italiano ha lo stesso significato.

Negli anni Venti-Trenta, a Odessa, le bande ebraiche erano tra le più forti e meglio organizzate, gestivano tutti i traffici illeciti e gli affari del porto. I loro membri erano uniti da un grande sentimento religioso e da un codice d’onore, una specie di regolamento interno chiamato kosca, termine che nel vecchio dialetto ebraico di Odessa significa «parola», «legge», «regola». Andare contro la kosca era insomma un buon modo per suicidarsi.

A metà degli anni Trenta il governo sovietico cominciò a combattere sistematicamente il crimine su tutto il territorio, e a Odessa — considerata una delle città più impestate dalla malavita e dalla criminalità organizzata — furono mandate delle squadre speciali che inventarono una tattica di lotta chiamata podstava, che significa «fatta apposta». Attraverso degli infiltrati, innescavano dei conflitti interni alle bande stesse.

Donnie Brasco, il famoso gangster cinematografico interpretato da Johnny Depp, non poteva di certo immaginare che i suoi precursori sovietici sfruttassero l’attività di agenti sotto copertura non per ottenere informazioni, ma per creare artificialmente situazioni nelle quali i criminali entravano in guerra tra di loro e si ammazzavano in dosi industriali. No, Donnie Brasco non se lo sarebbe mai sognato.

In quel modo furono eliminate molte bande e comunità criminali di Odessa. Solo quella ebraica riuscì a resistere, perché tra i poliziotti non c’erano ebrei e nessuno conosceva la cultura, la lingua e le tradizioni ebraiche al punto da poter fingere di essere uno di loro.

Quando poi a Odessa il potere della polizia crebbe e cominciò a minacciare anche gli ebrei, loro unirono le forze organizzandosi in due grandi bande composte da migliaia di membri. Una, la più famosa, era guidata dal leggendario criminale Benja Krik, detto «il Re», e si occupava principalmente di rapine e furti; l’altra era capeggiata da un vecchio criminale di nome Buba Bazic, detto «lo Strabico», e seguiva solamente i traffici finanziari illeciti.

Queste due strutture funzionavano perfettamente, tanto che la polizia non riuscì a fare niente contro di loro: molto presto s’impadronirono di Odessa, e la comunità ebraica divenne tra le più potenti nel sud dell’Urss, soprattutto in Ucraina.

Nell’ottobre del 1941, quando entrarono a Odessa le forze di occupazione tedesche e rumene, la maggior parte degli ebrei furono deportati nei campi di concentramento e sterminati.

I criminali si unirono alle squadre partigiane, nascondendosi nelle gallerie sotterranee che attraversavano tutta la città e arrivavano al mare. Colpivano il nemico di notte, con azioni di sabotaggio: facevano esplodere le linee ferroviarie, deragliare i treni carichi di armi e provviste, bruciavano e affondavano le navi, rapivano e ammazzavano gli alti ufficiali tedeschi, spesso catturandoli mentre erano in tenera compagnia delle prostitute di Odessa, che per l’occasione si erano trasformate in abili spie.

Bosja era li, in quei sotterranei.

A volte, quando passavamo da lui in negozio, ci raccontava della resistenza di Odessa, diceva che per qualche anno avevano vissuto tutti nelle gallerie sotto la città senza mai vedere la luce del giorno. I tedeschi — raccontava — facevano esplodere in continuazione quelle gallerie per impedire ai partigiani di compiere i sabotaggi, ma loro ogni volta si scrollavano la polvere di dosso e scavavano nuovi passaggi.

Sua moglie l’aveva conosciuta in quei sotterranei, era con la sua famiglia ebrea liberata dai partigiani: si erano innamorati e sposati lì, sotto terra. Lui diceva, forse per scherzo о forse no, che quando finalmente erano usciti dalle gallerie si erano dimenticati com’era la luce del sole, e la sua giovane moglie, dopo averlo guardato per bene in faccia, gli aveva detto:

«Non mi ero mai accorta che avevi un naso così lungo!»

Volevano un figlio, ma per anni dopo la guerra non erano riusciti ad averlo, e stavano male per questo fatto. Avevano provato tutte le cure, ma inutilmente. Così un giorno avevano deciso di andare da una vecchia zingara che abitava con una nipote cieca. Dicevano che ’sta zingara sapeva curare le malattie con la magia e i metodi popolari, che era una specie di strega, ma bravissima. La zingara gli aveva detto che né lui né sua moglie avevano malattie, che soffrivano solamente di brutti ricordi. Gli aveva consigliato di abbandonare Odessa e di sistemarsi da un’altra parte, in un posto dove non avevano niente che li legasse al passato.