Quella postazione era ideale: prima che le nostre vittime riuscissero ad accorgersi di quello che era successo, noi avevamo già scaricato tutto l’arsenale e ce n’eravamo andati tranquillamente con le bici verso casa.
In città non si parlava d’altro — «C’è stato un assalto al distretto», diceva uno, «Chi è stato?», chiedeva un altro, «Una banda di sconosciuti, pare», rispondeva un terzo — e noi ci sentivamo i protagonisti, ogni volta che sentivo qualcuno parlare di questa storia volevo gridarglielo in faccia: «Siamo stati noi, noi!!!»
Ero orgoglioso, niente da dire, mi sentivo un genio e per qualche tempo con i miei amici mi sono comportato come un generale con il suo esercito.
Alla fine abbiamo bruciato ancora qualche volta il cortile del distretto, ma poi i poliziotti l’hanno ricoperto con una rete di ferro e cosi le nostre molotov non passavano più: molte rimbalzavano sulla rete e poi cadevano per terra, plof! dalla parte esterna del muro, anche senza esplodere. Non era più molto interessante.
Per qualche tempo abbiamo cercato d’inventarci qualcosa di nuovo, ma poi improvvisamente siamo cresciuti e qualcuno ha proposto semplicemente di sparare ai poliziotti con le pistole. Anche quello era interessante, ma non come bruciarli con le mini-molotov, armi che avevano qualcosa di medievale, e che ci facevano sentire come cavalieri che lottano nobilmente contro i draghi.
E dunque, andando verso il locale di zia Katja con la nostra bella pianta in mano, siamo passati sul Ponte dei morti. All’epoca era un pezzo di strada asfaltata da cui sporgevano pietre vecchie, ma un tempo era stato un ponte vero e proprio. Una volta distrutto, lo avevano prima ricoperto di terra e poi asfaltato, ma per qualche inspiegabile ragione le pietre continuavano a tornare alla superficie, bucando l’asfalto. Era impressionante vedere quelle grosse macchie nere vecchie e deformi che spuntavano dall’asfalto pieno di crepe. Un vecchio della nostra zona mi aveva detto che il mistero si spiegava facilmente come uno «sbaglio d’ingegneria». Ma io da bambino credevo di più a un’altra storia che spiegava quello strano movimento delle pietre del Ponte dei morti come un fenomeno soprannaturale.
Raccontavano che nel diciannovesimo secolo nella nostra città c’era stata una rivolta di lavoratori, stanchi di essere sfruttati da un ricco e nobile signore che aveva una fama paragonabile a quella del conte Dracula. Il pretesto della rivolta era stata la violenza sessuale che quel gentiluomo aveva fatto a una giovane contadina. Quella ragazza non era stata zitta a subire, a differenza di molte altre prima di lei, ma aveva fatto sapere a tutti la verità, a costo di venire disprezzata e di perdere la sua dignità. La gente però non l’aveva disprezzata ma sostenuta, i contadini e i lavoratori erano subito insorti. Avevano ammazzato le guardie ed erano entrati nel palazzo del padrone, lo avevano tirato fuori dal letto e portato in strada, dove l’avevano ucciso a calci e a pugni. Dopo, avevano legato il suo corpo al cancello del palazzo impedendo ai famigliari di toglierlo: doveva marcire li sopra, avevano detto.
Il giorno dopo, la rivolta era stata sedata. Ma la gente diceva che se il corpo del padrone fosse stato tirato giù dal cancello e sepolto sotto una croce, la maledizione sarebbe caduta su tutta la sua famiglia. Ovviamente nessuno aveva ascoltato quelle parole, e il padrone era stato sepolto con tutti gli onori, come un eroe caduto in guerra. Passato qualche mese sua moglie si era ammalata ed era morta. Il figlio maggiore, ormai un giovane uomo, era morto poco dopo anche lui, cadendo da cavallo. Infine, dopo qualche tempo, la figlia era morta mentre partoriva il suo primogenito, che non era sopravvissuto neanche lui.
Il palazzo era stato abbandonato e presto era caduto in rovina: nessuno voleva più andarci a vivere. La terra di quel nobile era stata occupata dai contadini. Sopra le tombe di famiglia avevano costruito un ponte, che per questo si chiamò il «Ponte dei morti».
La leggenda dice che ogni notte i fantasmi dei famigliari si riuniscono per tirare fuori dalla terra il corpo di quell’uomo crudele, per appenderlo di nuovo al cancello, perché vogliono mettere fine alla maledizione e tornare a riposare in pace. Ma non riescono mai a tirarlo fuori, perché sopra la sua tomba è stato costruito il ponte, e l’unica cosa che i fantasmi riescono a fare in una notte è tirare su qualche pietra, che poi il giorno dopo la gente, passando sul ponte, spinge di nuovo al suo posto.
Da bambini ogni tanto di notte andavamo a caccia di quei fantasmi. Per farci coraggio ci portavamo il nostro coltello.
E anche vari oggetti «magici» siberiani, tipo la zampa secca di un’oca о un ciuffo d’erba preso in riva al fiume in una notte di luna piena.
Ci nascondevamo in un piccolo fosso e aspettavamo i fantasmi. Riempivamo quell’attesa con racconti di paura e di vari casi misteriosi, che dovevano servire a spaventarci e tenerci sempre in allerta, ma presto ci addormentavamo uno dopo l’altro.
Il primo diceva:
«Ragazzi, svegliatemi se si vede qualcosa», e poi tutti noi cadevamo come cadaveri sul fondo di quel fosso.
La mattina, chi aveva resistito più a lungo raccontava agli altri quello che voleva.
Gli altri naturalmente si arrabbiavano:
«Bel cretino, ma perché non ci hai svegliati?»
«Non riuscivo a muovermi né ad aprire bocca, — sparava quello. - Ero come paralizzato».
Mei una volta ci ha raccontato che i fantasmi lo avevano rapito, portandolo in giro per la città, volando. Quando immaginavo Mei volare in compagnia di nobili fantasmi del secolo scorso ero davvero colpito al cuore.
E insomma, ogni volta che passavamo da li ricordavo a Mei la storia del suo volo. Lui mi guardava a bocca aperta:
«Mi prendi per il culo?» E io scoppiavo a ridere muovendo le braccia, imitando il movimento delle ali, e allora a quel punto anche Mei non resisteva più e attaccava a ridere pure lui.
Oltrepassando il Ponte dei morti agitando tutti e due le braccia, finalmente siamo arrivati nella via del ristorante di zia Katja.
L’abbiamo trovata in mezzo ai tavoli che serviva i clienti abituali, criminali anziani che vivevano da soli e andavano a mangiare da lei ogni giorno. Avevano passato tutti così tanto tempo in prigione che si erano abituati alla vita collettiva criminale, e per questo cercavano di stare sempre insieme, anche se dimostravano il contrario, visto che sembrava che gli desse fastidio sopportarsi a vicenda. Avevano stampati sulla faccia segni di sofferenza, ma in realtà quelle erano le loro vere facce, le loro facce normali. Secondo me avevano una specie di nostalgia della prigione, e persino della sofferenza nella quale si erano abituati a vivere per tanto tempo. Continuavano a fare la vita dei carcerati, pur essendo da anni persone libere. Molti non riuscivano più ad abituarsi alle regole del mondo civile, alla libertà. Quasi tutti preferivano vivere in monolocali nei quali avevano fatto abbattere i muri del bagno e del cucinino, per ottenere una stanza unica che ricordasse la cella. Conoscevo dei vecchi che mettevano persino il filo spinato e le sbarre alle finestre, perché altrimenti si sentivano a disagio e non riuscivano a prendere sonno. Altri dormivano su brande di legno come in carcere e lasciavano sempre scorrere l’acqua dal rubinetto, proprio come nelle celle. Tutta la loro vita diventava una perfetta imitazione di quella fatta in galera. Era strano: si pensa che una persona, dopo aver trascorso tanti anni dentro, non veda l’ora di abbandonare il disastroso modo di vivere del carcere per avere le comodità di una vita libera e bella, però per questa gente era come se gli avessero tolto la loro vera identità e li avessero catapultati in un mondo estraneo.