Zia Katja permetteva a tutti quei criminali di ricreare nel suo locale una specie di finto carcere, perché erano suoi clienti da sempre ma anche perché voleva bene a ognuno di loro e, come diceva lei stessa:
«Non oso rieducare le persone anziane».
Cosi quando si entrava nel ristorante di zia Katja, sembrava di stare dentro una cella.
Lo si capiva già da come stavano seduti, con le teste tutte chine, come se qualcosa gli impedisse di alzarle. Questo è un buon metodo per distinguere un vecchio carcerato: tiene sempre la testa bassa, perché in prigione si passa la maggior parte del tempo seduti sulle brande e bisogna stare attenti a non battere la testa contro la branda di sopra. Anche chi ha passato pochi anni in galera, quando esce non si libera facilmente di questa abitudine.
Di solito da zia Katja i vecchietti giocavano a carte, ma non con normali carte da gioco, con le kolotuski, carte fatte in carcere, dipinte a mano.
Erano tutti vestiti uguali, di grigio, e avevano tutti la fufajka, la classica giacca pesante, spessa e calda.
Come in cella, fumavano passandosi la sigaretta l’un l’altro, anche se potevano permettersi di fumare ognuno la sua; da quel fumo che riempiva il locale spuntavano le loro facce distrutte, con su un’espressione che era un’eterna domanda, come se li avesse colpiti un fatto strano, che proprio non riuscivano a spiegarsi: occhi spalancati che ti guardavano e in tre secondi ti facevano una radiografia completa, e sapevano meglio di te chi eri.
Tra loro parlavano solamente in gergo e in fenja, la vecchia lingua criminale siberiana, ma parlavano piano e poco, comunicavano più a gesti, soprattutto segreti.
Chiamavano zia Katja «mamma», per sottolineare l’importanza del suo ruolo e della sua autorità.
Seguivano molte regole di comportamento del carcere, ad esempio non andavano in bagno mentre qualcuno mangiava о beveva, anche se il bagno non era nella stessa stanza ma dall’altra parte del cortile. Non discutevano di politica, religione, о differenze tra nazionalità.
Tra loro esisteva una precisa gerarchia: i più autorevoli si sedevano vicino alle finestre, e godevano dei posti migliori, gli altri stavano più vicini alle porte. I «rifiuti» e gli «abbassati» non erano ammessi: in libertà non si è costretti a condividere lo stesso spazio come in carcere. C’erano solo due о tre «sesti»[8], che erano una specie di schiavi, persone che svolgevano compiti ritenuti non degni di un criminale: potevano toccare i soldi con le mani, cosi pagavano le consumazioni di tutti prendendo il denaro dalla cassa comune. Quando qualcuno finiva le sigarette il «sesto» doveva correre a procurargliene altre: servizio per cui veniva retribuito ma anche trattato con leggero disprezzo, non offensivo, ma indicativo, per ricordargli il suo posto nella scala gerarchica. Faceva impressione vedere ’sti vecchi trattati come ragazzini; stavano sempre allerta, controllavano in continuazione se qualcuno in sala aveva bisogno di loro. Quando portavano le sigarette s’inchinavano con la faccia umile, aspettavano che il criminale più autorevole aprisse il pacchetto e gliene offrisse qualcuna per il servizio, poi, ringraziando, tornavano al loro posto camminando al contrario, come i gamberi, per non dare la schiena alle persone con cui avevano appena avuto a che fare.
Insomma, entrando nel locale di zia Katja bisognava seguire le regole del carcere, e comportarsi come uno si comporta quando entra in una vera cella. Poteva sembrare una sciocchezza, però per quella gente, per quegli anziani ex carcerati, era un segno di rispetto, un modo per fargli capire che eri venuto con buone intenzioni ed eri uno in gamba.
Quando entri in una cella devi saper salutare in maniera degna. Non puoi dire semplicemente «Salve» о «Buon giorno», se lo fai i criminali capiscono subito che sei uno che non sa niente della loro cultura, e se ti va bene ti definiscono «uno di passaggio», uno che non c’entra niente con loro, e di conseguenza non comunicheranno con te, faranno finta che tu non esista. Bisogna salutare cosi: aprire la porta, fare un so lo passo e poi fermarsi, guai a fare un altro passo. Quindi dire «Pace alla casa vostra (o nostra)» о «Pace e salute agli onesti vagabondi» (questa è una variante sicura, da vero criminale), oppure «Buona salute alla compagnia onesta», «E l’ora delle vostre gioie»: insomma, esistono tanti modi di salutare, conosciuti e usati nel mondo criminale. Dopo aver pronunciato la formula giusta, è essenziale non muoversi e aspettare la risposta. Di solito i criminali non rispondono subito, fanno passare qualche momento, per valutare la tua reazione. Se sei in gamba starai tranquillo, fisserai un punto davanti a te e non guarderai mai nessuno in faccia, starai fermo e immobile ad aspettare. Ti risponderà la persona più autorevole, о uno dei suoi, sempre con una formula: «Benvenuto con onestà» о «Che il Signore ti guidi», oppure «Entra con l’anima».
Secondo le regole, prima di fare qualunque altra cosa, bisogna salutare personalmente il criminale più autorevole. Nel mio caso, quella volta io lo conoscevo. Si trovava vicino a una delle finestre dalla parte opposta del locale di zia Katja. Si sedeva sempre li, in compagnia dei suoi.
Tutte le persone presenti appartenevano alla casta degli Uomini, che nella gerarchia criminale viene chiamata anche Seme grigio. Erano criminali incalliti, alcolisti, gente semplice, ladri e assassini, che per motivi personali non avevano voluto affiancarsi alla casta di Seme nero, i cui membri rappresentavano una specie di «nobiltà» tra i criminali.
Tra le comunità criminali c’era un eterno processo di lotta per il potere, gli interessi erano diversi ma lo scopo finale di tutti era sempre lo stesso: il potere.
Il Seme nero nel mondo fuorilegge era una casta giovane ma potente, che aveva saputo far leva sulla filosofia del sacrificio personale. Apparivano come uomini puri e perfetti, che dedicavano la vita al benessere della gente in prigione. Avevano il culto della prigione: la chiamavano familiarmente «casa», «chiesa» о «madre», ed erano felici di finirci dentro anche per tutta la vita, mentre tutte le altre caste, tra cui anche quella degli Urea siberiani, disprezzavano la prigione e sopportavano la detenzione come si sopporta una disgrazia.
Grazie all’arruolamento nelle sue fila di cani e porci, il Seme nero era diventata la casta più numerosa nel mondo fuorilegge russo: ma per una persona saggia e buona che potevi incontrare fra di loro, ti toccava conoscerne altre venti ignoranti e sadiche, che si davano arie e facevano i prepotenti in ogni situazione. Per questo molti rifiutavano di condividere le loro idee.
Poi c’era un’altra particolarissima casta: il Seme rosso, gente che collaborava con gli sbirri e che credeva nelle balle raccontate dalle amministrazioni delle prigioni, come il «recupero della personalità». Venivano chiamati «cornuti», «rossi», «compagni», sucha, padla — nomi molto dispregiativi nella comunità criminale.
Tutti quelli che si trovavano in mezzo erano detti Seme grigio: cioè, neutrali. Erano contro gli sbirri e condividevano le regole della vita criminale, ma non avevano le responsabilità e soprattutto la filosofia di Seme nero, non volevano certo stare tutta la vita in prigione.
Quelli di Seme nero erano obbligati a rinnegare i parenti, non potevano avere né casa né famiglia. Come tutti gli altri criminali avevano il culto della madre, ma molti di loro non rispettavano le loro madri, anzi le trattavano male. Quante povere donne ho conosciuto con dei figli che, mentre stavano dentro, si dicevano l’un l’altro in maniera teatrale che l’unica cosa che gli mancava davvero era la mamma, mamma di qua e mamma di là, tante belle parole, e poi quando uscivano si presentavano a casa solamente per sfruttarla, a volte derubarla, perché così dice la loro regola: «Ogni Blatnyj — cioè ogni membro di Seme nero — deve portare via tutto dalla propria casa, solo così dimostra di essere onesto fino in fondo…» Una pazzia, madri e padri derubati, minacciati e a volte persino uccisi. Una vita corta e violenta, come la definivano loro stessi: «Vino, carte, donne e poi caschi pure il mondo…», senza nessun impegno morale о sociale. Tutta la loro esistenza si trasforma in uno spettacolo continuo in cui devono mostrare sempre e solo i lati negativi e primitivi della loro natura.
8
Cosi vengono chiamati i membri di livello più basso di alcune caste criminali: il numero deriva dalla carta da gioco di minor valore presente in un mazzo.