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L’equilibrio tra Seme grigio e Seme nero si regge su continue tregue; gli Uomini sono più numerosi, ma i Blatnyj sono meglio organizzati in carcere.

La casta degli Uomini non ha una gerarchia come quella di Seme nero: viene rispettata l’anzianità e la professione, si trovano più in alto quelli che rischiano di più, rapinatori e assassini di poliziotti, mentre dopo vengono i ladri, i truffatori, i bari e tutti gli altri.

Gli Uomini condividono ogni decisione e seguono regole di vita simili a quelle siberiane, ma si mantengono pili neutrali in qualsiasi situazione. Il loro motto è: «La nostra casa è fuori dal villaggio». Le loro unità criminali non si chiamano bande ma «famiglie», e anche in prigione formano famiglie dove sono tutti uguali e condividono ogni cosa; quando è necessario le famiglie si uniscono e diventano una potenza senza limiti. Quasi tutte le rivolte carcerarie sono organizzate da loro.

Il vecchio più autorevole in quel locale — che dovevo salutare personalmente prima di fare qualsiasi altra cosa — si chiamava zio Kostic, ed era soprannominato «Scaber».

Era un criminale vecchio ed esperto, conosciuto in tutto il Paese; nella nostra comunità e nella mia famiglia parlavano bene di lui, lo trattavano con molto affetto. Era un tipo tranquillo e pacifico, aveva un modo di parlare molto piace-vole, si esprimeva con pazienza e umiltà ed era sempre chiaro e diretto: se doveva dirti una cosa non ci girava tanto intorno. Viveva con sua madre, una donna cosi vecchia che sembrava una tartaruga, si muoveva piano ma era molto in gamba; avevano una casa e un po’ di terra. Zio Kostic teneva molti colombi e io ogni tanto andavo a trovarlo per fare degli scambi: lui era onesto e mi regalava sempre qualche colombo in più, mi offriva il cifir e dopo mi raccontava varie storie interessanti della sua vita. Aveva una figlia da qualche parte della Russia ma non la vedeva da tanto tempo, e secondo me soffriva molto per questo.

Da giovane — mi raccontava — non era un criminale, lavorava in una grande segheria, tagliava i tronchi degli alberi. Ma poi un giorno aveva visto un ragazzo tagliarsi in due, cadendo sulla lama di una grande sega, spinto da un tronco. Il capo squadra non aveva permesso a nessuno di smettere di lavorare neanche per un momento, e loro erano stati obbligati a continuare a tagliare il legno, macchiandosi del sangue del loro compagno. Da allora aveva cominciato a odiare il comuniSmo, il lavoro collettivo e tutto ciò che proponeva il sistema sovietico.

La sua prima condanna se l’era beccata per un articolo del codice penale chiamato in Urss «Fannullone». Secondo quell’articolo, chi non aveva un lavoro ed era disoccupato poteva essere condannato come un criminale. E cosi, Kostic era stato mandato per tre anni in un carcere a regime comune nella città di Tver'. In quel periodo era in corso una guerra tra caste, il Seme nero stava per avere il controllo delle prigioni; all’inizio non molti erano d’accordo con questo cambiamento e il sangue scorreva come un fiume a primavera. Kostic aveva cercato di stare staccato da tutti, di non legarsi a nessuno, ma man mano che passava il tempo si era accorto che in prigione è impossibile vivere per conto proprio. A lui stavano più simpatici gli Uomini che i Blatnyj perché, diceva, «sono semplici e non tentano di ottenere niente con la violenza e la prepotenza, preferiscono usare le parole e il buon senso». In carcere era entrato a far parte di una famiglia che cercava di vivere in maniera neutrale, senza prendere le parti di nessuno in quella guerra, ma un giorno uno dei loro criminali anziani era stato ucciso da un giovane e spregiudicato Blatnoi, che voleva indebolire la casta di Seme grigio per poi sfruttare i suoi membri asservendoli ai propri interessi.

Allora gli Uomini hanno organizzato prima una specie di resistenza pacifica, poi, quando hanno capito che questo atteggiamento non dava i risultati voluti, si sono decisi a entrare in guerra. E quella guerra l’hanno combattuta con i coltelli. Molti di loro, lì in prigione, lavoravano in cucina e come parrucchieri (invece i Blatnyj non lavoravano, era contro le loro regole), quindi si sono armati senza fatica di coltelli e forbici e hanno seminato la morte tra il Seme nero.

Kostic sapeva usarlo bene, il coltello: era cresciuto in campagna, da ragazzo aveva imparato ad ammazzare i maiali grazie all’insegnamento di un vecchio reduce della Prima guerra mondiale che faceva il macellaio e finiva le bestie con un colpo di baionetta. Cosi, dopo i suoi primi omicidi, Kostic si è guadagnato quel soprannome: i compagni l’hanno chiamato con il nome di un coltello. Una volta uscito di prigione, sapeva già di cosa si sarebbe occupato: è cominciata allora la sua lunga carriera di rapinatore delle navi sui fiumi Volga, Don e Danubio.

Con zio Kostic io potevo parlare liberamente, senza seguire tante regole di comportamento. Certo ero rispettoso come con qualsiasi persona anziana e autorevole, ma mi permettevo anche un po’ di confidenza: gli raccontavo le mie avventure e gli facevo tante domande, cosa che nella comunità criminale di solito non si fa.

Spesso mi chiedeva di recitargli le poesie di Esenin, Lermontov, Puskin che conoscevo a memoria, e quando avevo finito diceva ai suoi compagni:

«Avete sentito? Questo diventerà un giorno un uomo intelligente, uno studiato! Che Dio ti benedica, figliolo! Dai, ripetimi ancora quella dell’aquila dietro le sbarre…»

Era il suo pezzo preferito, la poesia di Puskin dove era raccontato in maniera metaforica lo stato d’animo di un carcerato, paragonato a quello di una giovane aquila allevata in prigionia e costretta a vivere in una gabbia stretta. Io la recitavo con tono potente e lui mi guardava dritto negli occhi, come se cercasse qualcosa che doveva arrivare e non arrivava mai, e le sue labbra piano piano si muovevano ripetendo le parole che avevo appena detto. Quando finivo con i versi «Su, voliamo via! Noi siamo liberi uccelli, è tempo, fratello, è tempo! Là, dove dietro le nubi biancheggia la montagna, là, dove l’azzurro del mare è più intenso, là, dove volo da so lo nel vento…», lui si metteva le mani tra i capelli e diceva in maniera molto teatrale:

«E così, è vero, è così! Ma anche se avessi un’altra vita, rifarei le stesse cose!»

In quei momenti mi faceva impressione capire quanto lui era semplice e com’era bella e in un certo senso pura la sua semplicità.

Un giorno Kostic aveva ammazzato di botte una coppia di giovani tossici che abitavano in Centro, colpevoli di aver provocato la morte del loro bambino di quattro mesi lasciandolo senza cibo, buttato a morire di fame in un angolo del loro appartamento, tra gli stracci sporchi e i vestiti da lavare.

Quella coppia era famosa in città per la sua arroganza. La ragazza era abbastanza bella, si vestiva in maniera molto provocante e si comportava allo stesso modo. Il marito, figlio del direttore di una fabbrica di macchine di una grossa città della Russia centrale, era un ex studente fallito, un tossicodipendente e uno spacciatore, dava fastidio a tanta gente perché seminava il suo veleno tra i giovani.

I vicini di casa, che da tempo avevano notato che il bimbo era troppo magro e piangeva sempre, una mattina li hanno visti uscire senza il piccolo e poi andare al bar, dove sono rimasti tutto il giorno. Sospettando qualcosa di brutto hanno buttato giù la porta di casa e hanno trovato quel corpicino senza vita. A quel punto hanno scatenato un inferno.

I due genitori sono stati linciati dalla folla, che li avrebbe di certo ammazzati se non fosse intervenuto il Guardiano del Centro, che li ha presi e portati a casa sua, dicendo che dovevano essere giudicati secondo le regole criminali. In verità il Guardiano voleva solamente sfruttare l’occasione per ricattare il direttore della fabbrica, e costringerlo a pagare per salvare il figlio da morte sicura. Tutti, anche se sospettavano qualcosa, hanno preferito tacere. Tutti tranne Kostic.