Kostic ha fatto un gesto spettacolare: si è presentato da solo a casa del Guardiano, a torso nudo, con un bastone tra le mani. Gli scagnozzi del Guardiano hanno tentato di fermarlo, minacciandolo con la forza, ma lui ha detto solamente una cosa:
«Volete picchiare lei?» indicando la Madonna con Bambino tatuata sul suo petto. Quelli si sono tirati indietro e l’hanno fatto entrare, e lui ha ucciso a bastonate quei due genitori snaturati buttandoli poi giù dalla finestra, in strada, dove la gente li ha pestati finché non sono diventati una specie di massa biologica.
Il Guardiano era infuriato, ma già dopo mezz’ora le persone più autorevoli in città, tra cui anche nonno Kuzja, hanno dato ragione a Kostic e hanno consigliato al Guardiano una soluzione semplice e drastica: suicidarsi.
Dopo una settimana è arrivato in città il direttore della fabbrica, con l’intenzione di vendicare il figlio. Era evidente che sapeva ben poco della nostra città, perché si è presentato con una banda di coglioni armati, composta metà da sbirri fuori servizio e metà da militari; li aveva ingaggiati per fare una spedizione punitiva contro il criminale che aveva ucciso suo figlio. Ebbene, sono spariti tutti in un vicolo, insieme ai loro tre fuoristrada. Nessuno ha visto né sentito niente, sono entrati in città e non ne sono mai usciti.
Li hanno cercati ancora per un po’: appelli sui giornali, in televisione hanno persino fatto vedere la moglie del direttore che supplicava chiunque sapesse qualcosa del marito di parlare. Non è venuto fuori niente, come si dice da noi: «annegato senza lasciare neanche i cerchi nell’acqua».
Quando io chiedevo a nonno Kuzja, non in maniera diretta ovviamente ma prendendola alla larga, se secondo lui il direttore era morto per una ragione giusta, lui mi rispondeva con una frase che doveva piacergli molto, visto che la ripeteva a ogni occasione:
«Chi viene da noi con la spada, dalla spada prenderà la morte». Dicendolo mi sorrideva come faceva sempre, ma lo faceva con lo sguardo pesante di chi si tiene dentro tante storie che sono destinate a rimanere li per sempre.
Tornando a noi: ci siamo diretti verso il tavolo di zio Kostic, io camminavo spedito e Mei si trascinava dietro di me. Zio Kostic ci ha subito offerto di sederci con lui. Era un gesto generoso, ne abbiamo approfittato all’istante.
A quel punto è arrivata zia Katja, che ci ha baciati a lungo.
— Come state, figlioli? — ha chiesto con la sua solita voce angelica.
— Grazie, zia, tutto bene… Passavamo di qui, abbiamo deciso di fare un salto, vedere come stavi, se avevi bisogno di qualcosa…
— Sono sempre qui con la mia compagnia, grazie al cielo… — e ha gettato a zio Kostic un’occhiata affettuosa.
Lui le ha preso la mano e le ha baciato il palmo come si usava fare ai vecchi tempi in segno di affetto verso una donna, spesso la madre о la sorella. Poi ha detto:
— Che Gesù Cristo sia con te, madre, respiriamo grazie alle fatiche che fai. Perdonaci per tutto, Katjusa, siamo vecchi peccatori, perdonaci per tutto.
Era un vero spettacolo assistere a questi semplici e allo stesso tempo plateali gesti di rispetto e amicizia umana tra persone dai destini così diversi, unite dalla solitudine in mezzo al caos.
Zia Katja si era seduta con noi. Il vecchio continuava a tenerle la mano e guardando lontano, sopra le nostre teste, ha detto:
— Mia figlia deve avere la tua stessa età, lo sai, Katja? Spero che stia bene, che abbia trovato la sua strada e che sia una strada buona e giusta, diversa dalla mia…
— E anche dalla mia… — gli ha risposto zia Katja con la voce un po’ tremolante.
— Dio mi perdoni, povero scemo che sono. Cosa ho detto, Katjusa, che Dio ti aiuti…
Lei non ha risposto, stava quasi per piangere.
A noi toccava solo stare zitti e ascoltare, l’aria era piena di sentimenti veri e profondi.
Quello che mi piaceva di quell’ambiente, per quanto violento e brutale potesse essere, era che non c’era posto per bugie e menzogne, sceneggiate e buffonate: era assolutamente vero e involontariamente profondo. La verità, voglio dire, aveva un aspetto naturale, spontaneo, e non coltivato, fatto apposta: la gente era veramente umana.
Dopo una corta pausa io ho detto:
— Zia Katja, ti abbiamo portato una cosa…
Mei ha messo sul tavolo il sacchetto con la pianta avvolta negli stracci del vecchio Bosja, per proteggerla dal freddo.
Lei ha tolto quegli stracci e sulla faccia le è apparso un sorriso.
— Allora, com’è? Ti piace?
— Grazie, ragazzi, è bellissima. La porto subito nella serra, altrimenti con il freddo che fa… — e se n’è andata via con la pianta tra le mani.
Noi eravamo contenti, come se avessimo fatto un gesto eroico.
— Bravi, figlioli, — ci ha detto zio Kostic. - Non dimenticatela mai questa donna santa, che solo Dio lo sa come ci si sente a perdere i propri figli…
Quando zia Katja è tornata glielo si vedeva dagli occhi, che mentre era in serra aveva pianto. Ci ha abbracciati.
— Allora, con cosa vi devo sfamare oggi?
Era una domanda retorica. Tutto quello che cucinava lei era buonissimo. Senza pensarci su due volte abbiamo ordinato un’ottima zuppa rossa con la panna acida e il pane di grano duro. Un pane buono, nero come la notte.
Lei ha portato un pentolone pieno e lo ha messo al centro del tavolo, la zuppa era talmente calda che il vapore sembrava solido come un palo. Ci siamo serviti con un grande mestolo, poi abbiamo aggiunto nei piatti un cucchiaio di panna acida, che era dura e un po’ gialla, tanto grasso conteneva. Prendevamo un pezzo di pane nero, ci spalmavamo sopra aglio e burro, e via così, una cucchiaiata di zuppa e un morso di pane.
In quelle occasioni Mei era capace di svuotare da solo un intero pentolone, mangiava in fretta, io invece masticavo lentamente, mi dedicavo tutto a quel piacere e spesso, quando giravo il mestolo nel pentolone per prendere un bis, lo sen-tivo sbattere tristemente contro le pareti vuote. In quei momenti avevo la grande tentazione di spaccare il mestolo sulla testa del mio insaziabile compagno.
Per me, dopo aver mangiato la zuppa, è come se mi si aprisse un secondo respiro dentro il corpo, mi partono a raffica emozioni positive e mi viene voglia di stirarmi su un letto caldo e comodo e farmi una dormita di dieci ore.
Ma tempo cinque minuti per il cambio dei piatti ed è arrivato il secondo: patate cotte con la carne al forno, che galleggiavano nel grasso sciolto e avevano un profumo che arrivava direttamente al cuore. E al solito, per accompagnare quella portata, i tre piatti tipici. Cavoli tagliati lunghi e sottili, marinati nel sale, una cosa buonissima: mio nonno diceva sempre che erano una medicina naturale contro qualunque malattia, e che era grazie a loro che i russi avevano vinto tutte le guerre. Io personalmente ignoravo come i cavoli salati potessero guarire le malattie e con quali strategie militari avessero vinto le guerre, però erano molto buoni e come si dice da noi «andavano giù fischiando». L’altro piatto erano i cetrioli, sempre marinati nel sale, buoni da morire, croccanti come se li avessero appena tolti dalla pianta, profumati da tante spezie ed erbette, una favola. Il terzo erano le rape bianche grattugiate, con olio di girasole e aglio fresco. Erano tutti piatti che venivano da una cucina contadina molto povera di materie prime, ma capace di sfruttarle tutte con tante ricette diverse. Poi sul tavolo erano sempre presenti dei piattini con aglio fresco, cipolla tagliata a fettine, pomodori-ni verdi, burro, panna acida, e tanto pane nero. Per me, se esiste il paradiso, dev’esserci assolutamente una tavola imbandita come quella del locale di zia Katja.