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Non osavamo bere alcol davanti a lei, per non darle un dispiacere. Così bevevamo kompot, una specie di composta di frutta, una macedonia di mele, pesche, prugne, albicocche e mirtilli rossi e neri fatta bollire a lungo in un grosso pentolone. Si preparava d’estate, e per il resto dell’anno veniva conservato in bottiglioni da tre litri con un collo largo circa dieci centimetri, chiuso ermeticamente. Si teneva in fresco nelle cantine, poi andava riscaldato prima di berlo.

Ogni volta che zia Katja si allontanava, zio Kostic aggiungeva nei nostri bicchieri un po’ di vodka facendoci l’occhiolino:

— Fate bene a non farvi vedere da lei… — Noi buttavamo giù obbedienti il misto di vodka e kompot, e lui rideva delle facce che facevamo subito dopo.

Il pranzo è durato un’ora, forse un po’ di più. Alla fine è arrivato tè bollente, forte e nero, con limone e zucchero. E torta al miele, una meraviglia. Mei si è buttato su quella torta come un invasore tedesco si buttava sulle galline nei pollai dei contadini russi. Ma ha subito ricevuto da me un’amichevole sberla e le sue mani sono arretrate fino a ritirarsi sotto il tavolo.

Il compito della divisione della torta spettava a me, era mio il compleanno. Il primo pezzo, per rispetto, l’ho dato a zio Kostic, il secondo all’amico di zio Kostic, un vecchio criminale chiamato «Beba», che era una specie di sua ombra silenziosa e invisibile. Poi, con calma, lentamente, ho servito Mei, che stava quasi per esplodere: guardava concentratissimo la sua fetta come quando un cane fissa il pezzettino di cibo nella mano del padrone e segue tutti i suoi movimenti. Mi faceva ridere, cosi senza nessun rimorso torturavo la sua pazienza facendo ogni gesto al rallentatore. Alla fine Mei si è innervosito e le sue ginocchia hanno cominciato a tremare sotto il tavolo in uno spaventoso tic, allora io con calma assoluta gli ho detto:

— Attento che rischi di farla cadere.

Tutti si sono messi a ridere, e Mei più degli altri.

Dopo il dolce di solito si sta un quarto d’ora seduti immobili, come diceva mio nonno «per accumulare un po’ di grassi». E si parla di varie cose. Mei però non poteva parlare proprio di niente, perché a giudicare da come si staccava dal tavo lo e si appoggiava con la schiena alla sedia, era entrato in uno stato fisico e mentale da abuso di stupefacenti. Per questo mio zio, da quando Mei era piccolo, lo chiamava «maiale»: perché come i maiali diventava ubriaco subito dopo aver mangiato.

Cosi alle chiacchiere abbiamo partecipato solo io e zio Kostic, Beba ogni tanto infilava una parola.

— E allora, a casa tutto bene? Nonno, che Dio lo aiuti, come sta?

— Grazie, va avanti con le preghiere, meno male che il Signore ci ascolta sempre.

— E con quel povero ragazzo, Gancio, che è successo?

Kostic alludeva a una faccenda capitata qualche settimana prima: uno dei nostri, appena maggiorenne, si era scontrato in una rissa con tre georgiani e con il coltello ne aveva ferito gravemente uno. C’erano da sempre un po’ di grane con Caucaso, non era una vera guerra tra quartieri, ce l’avevamo solamente con un gruppo di reazionari georgiani. Gancio non aveva torto nel casino della rissa, però aveva commesso un errore dopo: non aveva voluto presentarsi a una specie di processo che era stato organizzato dalle autorità criminali della città su iniziativa di un famigliare del georgiano ferito. Gancio era arrabbiato e fuori di sé, e cosi, con assoluta leggerezza, aveva offeso il sistema di giustizia criminale. Se fosse andato davanti alle autorità e avesse detto la sua, sicuramente tutto sarebbe finito a suo favore, invece il famigliare del georgiano ferito aveva fatto credere che il suo parente era stato aggredito senza ragioni da un siberiano crudele e spietato.

Kostic era una delle autorità coinvolte nel processo, e stava cercando di ricostruire il motivo per cui Gancio si era comportato cosi.

— Com’è ’sto ragazzo, tu lo conosci bene, no?

— Si, zio, è un mio caro amico, abbiamo combinato parecchi guai insieme. Con me e con gli altri si è sempre comportato bene, da fratello —. Cercavo di salvargli la faccia almeno davanti a una delle autorità, sperando che poi zio Kostic avrebbe influenzato gli altri. Però non potevo neanche esagerare e dare la mia parola, del resto la mia parola di minorenne non contava granché.

— Sai perché si è comportato in maniera disonesta con della buona gente?

Kostic mi aveva fatto una domanda che dalle mie parti si chiama «quella che fa solletico», cioè una domanda abbastanza diretta a cui non puoi non rispondere, anche se non c’entri niente. A quel punto ho deciso di dire la mia, indipendentemente da quello che era successo:

— Gancio è una persona onesta, tre anni fa si è beccato sei coltellate nella rissa contro la gente di Parkan perché ha coperto con il suo corpo Mel e Gagarin. Mei era ancora un bambino, poteva rimanerci secco. A volte è difficile parlare con lui perché è un po’ solitario, ma ha un cuore grande e non ha mai mancato di rispetto a nessuno. Non so com’è andata con i georgiani: Gancio era da solo, non c’era nessuno con lui. Forse anche per questo si è sentito tradito: tre tipi estranei, anzi gente di Caucaso, ti beccano quasi sotto casa tua, nel cuore del tuo quartiere… e nessuno dei tuoi amici è li per darti una mano ad affrontarli.

L’avevo raccontato apposta, il sacrificio di Gancio in difesa di Mei, perché sapevo che queste cose contano più di tante altre. Speravo che anche Kostic la pensasse cosi, in fondo era rimasto un uomo semplice e un piantagrane unico.

— Secondo te si è comportato nel modo giusto? Non era meglio risolvere tutto a parole?

Quella domanda era una trappola tutta per me.

— Secondo me è andata com’è andata. Lo sai meglio di me, zio, che ogni volta è diverso. Prima che ti capiti non puoi sapere come reagirai.

— Se aveva ragione perché non ha voluto presentarsi davanti agli altri, per raccontare la sua versione? Allora crede di aver torto, non è sicuro di essersi comportato onestamente…

— Secondo me ha temuto di essere attaccato per la seconda volta, tutto qui. La prima sotto casa sua, con i coltelli, la seconda attraverso la giustizia della gente autorevole. Ha perso fiducia nelle autorità, si è sentito tradito: hanno accolto la richiesta dei georgiani pur sapendo che lui era stato accoltellato in quel modo, tre contro uno, e nel suo quartiere.

Finalmente ero riuscito a dire quello che pensavo.

Kostic per un momento mi ha guardato senza nessuna espressione, poi mi ha sorriso:

— Meno male che nella nostra vecchia città ci sono ancora dei giovani delinquenti… Ricordatelo sempre, Kolima, è sbagliato voler diventare un’autorità, lo diventerai se lo meriti, se sei nato per quello.

La questione di Gancio è stata risolta tre giorni dopo. Le autorità criminali hanno deciso che i georgiani avevano of-feso con la loro richiesta l’onore della giustizia, e li hanno proclamati «caproni puzzolenti», un’espressione di estremo disprezzo nella comunità criminale. Quei tre sono spariti dalla Transnistria, però prima di andarsene hanno lanciato una bomba a mano in casa di Gancio, mentre lui cenava con l’anziana madre. Per fortuna quella bomba veniva da una partita di bombe a mano che servivano per le esercitazioni militari: aveva un anello rosso disegnato con l’inchiostro e non c’era carica esplosiva, in poche parole era pericolosa quanto un mattone. I georgiani non lo sapevano, l’avevano comprata pensando che fosse funzionante.

Anche se non era morto nessuno, la gente del nostro quartiere l’aveva presa come una grave offesa alla comunità. Tanto che una sera nonno Kuzja mi aveva detto:

«Guarda il notiziario, forse vedrai qualcosa d’interessante».

Tra le ultime notizie c’era un servizio da Mosca: sette uomini con precedenti penali di nazionalità georgiana erano stati trovati uccisi nell’abitazione di uno di loro, brutalmente fucilati mentre cenavano. Le immagini mostravano una tavola capovolta, mobili pieni di buchi, corpi squarciati dalle ferite. Sul lampadario, una cintura da caccia siberiana tutta istoriata a mano, e appesa a quella cintura la finta bomba a mano. Il giornalista commentava: