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«… una brutale strage, senza dubbio una resa di conti eseguita da criminali siberiani».

Ricordo che quella sera, prima di andare a dormire, ho tirato fuori dall’armadio la mia cintura da caccia, l’ho guardata a lungo e ho pensato: «Com’è bello essere siberiani».

Dopo la conversazione con zio Kostic ho svegliato Mei con due buffetti. Abbiamo ringraziato zia Katja e siamo andati per la nostra strada. Lei come sempre è uscita sulle scale del locale e ci ha salutato finché non siamo spariti dietro l’angolo.

Mei si è messo a rompermi i coglioni, voleva sapere a tutti i costi di che cosa avevo parlato con zio Kostic. L’idea di dovergli riassumere tutto il contenuto del discorso mi raggelava, ma la sua faccia pura ha sciolto il mio ghiaccio.

Così ho cominciato a raccontargli tutto, e quando sono arrivato a dire che zio Kostic mi aveva chiesto di Gancio, lui si è fermato sul posto come un lampione:

— E tu non gli hai detto niente, no?

Era arrabbiato ed era un brutto segno, perché quando Mei si arrabbiava finiva che ci picchiavamo, e siccome era quattro volte pili grosso di me io le prendevo sempre. L’ho steso una sola volta in vita mia, ma avevamo poco più di sei anni: l’ho picchiato con un bastone aprendogli una ferita in testa, approfittando del fatto che era rimasto intrappolato con le braccia e le gambe in una rete da pesca.

Adesso Mei se ne stava li, fermo immobile sulla strada con la faccia incattivita e i pugni stretti. L’ho guardato a lungo, e proprio non arrivavo a capire che cosa potesse passargli per la mente.

— Ma come «niente», ho detto quello che pensavo… — non sono riuscito a finire la frase che mi ha buttato sulla neve e si è messo a pestarmi gridando che ero un traditore.

Mentre mi picchiava, ho fatto scivolare la mano destra nel taschino della giacca, dove tenevo un tirapugni. Ho infilato per bene le dita nei buchi, poi ho tirato fuori la mano di scatto e gli ho dato un gran colpo in testa. Mi faceva un po’ d’impressione picchiarlo proprio li dov’era era già pieno di traumi e dolori, però era l’unico modo di fermarlo. Infatti mi ha mollato e si è seduto vicino a me, sulla neve.

Io ero sdraiato, ansimavo e non riuscivo ad alzarmi, mi limitavo a controllare le sue mosse, a guardarlo. Lui si toccava il punto dove l’avevo colpito e con la faccia schifata continuava a picchiarmi leggermente con il piede, più per disprezzo che per farmi male.

Quando ho ripreso fiato mi sono alzato sui gomiti:

— Ma che diavolo ti è preso? Mi volevi ammazzare? Che ho detto?

— Hai parlato di Gancio e adesso lui avrà dei problemi. Mi ha salvato la vita, è nostro fratello. Perché hai fatto la spia a zio Kostic?

A quelle parole mi è preso un crampo, non riuscivo a crederci. Mi sono tirato su, ho tolto la neve dalla giacca e dai pantaloni, e prima di riprendere la strada gli ho girato la schiena. Volevo che capisse bene la lezione.

— Ho parlato bene di Gancio, scemo, l’ho difeso, — gli ho detto. - E se Dio vuole, zio Kostic ci aiuterà a toglierlo dai guai.

Dopo sono partito, sapendo già cosa sarebbe successo. Per un’ora buona avremmo camminato come una compagnia teatrale: io davanti, come Gesù appena sceso dalla croce, con la testa alta e lo sguardo pieno di promesse che si perde cinematograficamente nell’orizzonte, e Mei dietro, con le spalle basse, tutto umile, con la faccia di uno che ha appena commesso un reato vergognoso, costretto a fare saltelli come il gobbo di Notre-Dame e a ripetere con voce piagnucolante e pietosa sempre la stessa frase, come una preghiera monotona:

— Dài, Kolima, non ti arrabbiare. Non ci siamo capiti, succede, no?

«Ma porca puttana, — pensavo, — porca puttana!»

E cosi siamo usciti dal Centro, lasciandoci alle spalle l’ultima fila delle vecchie case a tre piani. Dovevamo attraversare tutto il parco fino a un edificio orribile e triste, un palazzo costruito due secoli prima per ospitare la zarina di Russia nei suoi viaggi nelle terre di confine. Non so niente di architettura, ma era chiaro persino a me che quel palazzo era un miscuglio di stili mal assemblati: un po’ di Medioevo e un po’ di Rinascimento italiano, copiato malamente dai russi. Era grezzo, con decorazioni che non c’entravano un tubo, e per di più era tutto coperto di muffa. Quello schifo di posto, che secondo il mio parere poteva andar bene solamente per feste sataniche e sacrifici umani, ospitava invece i malati termina li di tubercolosi. Beh, in un certo senso, i sacrifici umani in quel posto erano all’ordine del giorno…

A Bender quell’ospedale veniva chiamato morìlka, che nella lingua antica indica qualcosa che ti fa soffocare. I medici che lavoravano li erano per lo più medici militari del sistema penitenziario, insomma erano i dottori delle carceri. Arrivavano da tutta l’Urss, si trasferivano a Bender per qualche anno con le famiglie e poi se ne andavano; venivano subito sostituiti da altri, che prima di andarsene a loro volta proponevano nuovi cambiamenti, piccole e inutili rivoluzioni. Quei poveri malati ormai erano abituati ai continui trasferimenti da un piano all’altro, da un’ala all’altra, erano costretti a veder finire i loro giorni in mezzo al casino, con intorno gente sconosciuta che va e viene come al mercato.

L’ospedale era di tipo «chiuso», cioè sorvegliato come qualsiasi prigione, perché molti dei pazienti erano ex carcerati. Intorno aveva il filo spinato, con tanto di sbarre alle finestre.

Era vietato fumare in tutto l’edificio, ma gli infermieri portavano di nascosto le sigarette e le vendevano ai fumatori incalliti al triplo del costo normale, speculando alla grande.

Tra i pazienti c’erano tanti finti malati: autorità del mondo criminale che sfruttando le loro conoscenze erano riuscite a farsi fare certificati medici falsi dove venivano dichiarati «terminali». Cosi se ne stavano in un bell’ospedale anziché in un carcere tutto freddo, umido e puzzolente. Quando ne avevano voglia facevano arrivare le prostitute da fuori, organizzavano festini con gli amici e persino riunioni di autorità criminali a livello nazionale. Tutto era permesso e coperto, bastava pagare.

A garantire la felice permanenza delle autorità in ospedale era una donna, un’infermiera cicciona di nazionalità russa, sempre allegra: zia Marusja. Sembrava più sana di Nostro Signore, aveva le guance rosse e parlava a voce alta, con dentro una forza tremenda. Era molto amata dai criminali, perché non c’era niente che lei non potesse fare per loro.

L’ospedale era diviso in tre blocchi non comunicanti. Il primo, il più bello, era esposto al sole: aveva grandi vetrate e una piscina calda; era il blocco dei malati terminali, dove ogni paziente aveva la sua stanzetta pulita e calda ed era oggetto di continue attenzioni da parte del personale. Era lì che stavano le autorità: fingevano di essere moribondi e invece erano sani e pieni di forze, passavano le giornate a giocare a carte, a guardare film americani in videocassetta, a scopare le infermiere giovani e a ricevere le visite degli amici che gli fornivano tutto il necessario per una vita bella e piena di gioie.

Nonno Kuzja parlava male di quella gente, li chiamava urody, che significa «mutilati»: diceva che erano la vergogna del mondo criminale moderno, e che se esistevano persone così si doveva ringraziare la cultura che veniva dall’America e dall’Europa.

Il secondo blocco era destinato ai malati cronici. Stavano in sei in una stanza; niente televisione, niente frigo, solo la mensa e il letto. Dormire alle nove di sera, sveglia alle otto del mattino. Non si poteva uscire dalla stanza senza il permesso del personale autorizzato, neanche per andare al cesso. In caso di bisogno, fuori dalla fascia oraria prevista si doveva usare una vecchia latrina mobile che ogni sera veniva svuotata. Il mangiare era discreto, tre volte al giorno. In questo blocco stavano i malati veri, criminali e non, e poi molti senza tetto, vagabondi. Le cure mediche erano uguali per tutti: pastiglie e qualche iniezione, inalazioni di vapore due volte alla settimana. I locali venivano puliti dagli infermieri con un disinfettante potentissimo, la creolina, lo stesso che si usava per le stalle: puzzava così tanto che se lo respiravi per più di mezz’ora ti veniva un mal di testa tremendo. Lì dentro, pure il cibo puzzava di creolina.