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Quei treni andavano nei Paesi del blocco sovietico, tanti in Romania, Bulgaria e Jugoslavia. Portavano zucchero, conserve, prodotti alimentari a lunga conservazione. A volte erano già carichi a metà, con capi d’abbigliamento, cappotti caldi, tute da lavoro, guanti e uniformi militari. In certi vagoni potevi trovare anche elettrodomestici, trapani, flessibili, articoli da ferramenta, stufe elettriche, ventilatori. Quando capitava un’occasione cosi facevamo anche tre о quattro giri, per portare via il più possibile. Ma non riuscivamo mai a caricare tutto in macchina: per fortuna il nostro uomo ci lasciava depositare temporaneamente la merce in certi nascondigli del magazzino.

La nostra talpa infatti era proprio il vecchio guardiano del magazzino, un giapponese che ormai, a forza di vivere con i russi, si chiamava Boriska.

Era molto vecchio, ed era finito nella nostra città insieme ai siberiani con la seconda ondata di deportazione alla fine degli anni Quaranta, dopo la vittoria dei russi nella Seconda guerra mondiale.

Era stato fatto prigioniero di guerra nel conflitto russogiapponese, nella battaglia di Chalchin-Gol. Aveva battuto la testa ed era svenuto, poi era rimasto vivo per pura fortuna, perché sopra i cadaveri distesi a terra erano passati i carri armati russi. Dopo i carri era passata la cavalleria: lo avevano trovato H, sbandato, che girava come un fantasma in mezzo ai morti. Per pietà l’avevano preso con loro, altrimenti sarebbe stato ammazzato dai fanti che andavano in cerca di giapponesi vivi per vendicare i compagni uccisi nella notte precedente, quando le forze giapponesi avevano attaccato le prime divisioni russe.

I cosacchi non l’avevano consegnato alle forze armate, per qualche tempo lo avevano tenuto con loro, come addetto alle scuderie. Doveva pulire e accudire i cavalli dei cosacchi di Altaj, del sud della Siberia. Lo trattavano bene e tra lui e i cosacchi era nato un rapporto d’amicizia.

Boriska veniva da Iga, terra di ninja e assassini. Fin da ragazzo era stato addestrato a combattere con le armi e con le mani. Anche i cosacchi amavano i combattimenti con le armi bianche e la lotta, e cosi Boriska gli insegnava le tecniche del suo Paese e imparava le loro.

Boriska ce l’aveva con i giapponesi e soprattutto con i samurai e con l’imperatore, diceva che vivevano alle spalle del popolo, che era costretto a subire tante ingiustizie. Diceva di essersi arruolato solo per disperazione, a causa di una storia d’amore finita male. La ragazza di cui si era innamorato era stata data in sposa a un altro, ricco e potente.

L’ataman dei cosacchi, cioè il loro capo (un uomo grande e forte, un tipico siberiano del sud), gli voleva particolarmente bene. Un giorno — raccontava Boriska — lo aveva chiamato fuori dalla scuderia. Lui era uscito sul piazzale, dove i cosacchi lo aspettavano riuniti in cerchio.

«Adesso i giapponesi sono tutti morti, — aveva detto l’ata-man, — il Giappone ormai ha perso la sua guerra e tu puoi tornartene a casa. Però prima voglio che fai una cosa…» L’ataman aveva fatto segno a un giovane cosacco e quello aveva portato due spade: una era di Boriska, ce l’aveva alla cintura quando i cosacchi l’avevano salvato, e l’altra, la saska, era la tipica spada dei cosacchi siberiani, ben più pesante di quella dei cosacchi di altre parti della Russia, perché i siberiani la usavano anche per spaccare la legna. Una spada così può arrivare a pesare fino a sette chili e le persone capaci di usarla potevano, in tempi di guerra, aprire in due un uomo dalla testa alle anche.

L’ataman aveva preso quelle due spade e gli aveva detto davanti a tutti:

«Ti abbiamo trattato bene e non hai da lamentarti, ma adesso voglio sapere se tentare di occupare l’Urss ti è servito da lezione. Ecco a te le due spade. Se hai capito che fare la guerra contro di noi è stato ingiusto, spacca la tua spada giapponese con la nostra spada cosacca, e noi ti lasceremo stare con noi e sarai un cosacco anche tu. Se invece pensi che la vostra è stata una guerra giusta, spacca la nostra spada con la tua, e ti lasceremo andare libero dove vuoi e che Dio ti aiuti, non ti faremo del male».

Boriska non sapeva cosa fare. Non voleva diventare un cosacco, ma non pensava neanche che la guerra contro i russi fosse stata una cosa buona e giusta. E poi soprattutto odiava i giapponesi.

Allora aveva preso in mano la sua spada, l’aveva baciata come fanno i cosacchi con le loro spade e se l’era appesa alla cintura, al suo posto.

L’ataman lo guardava con interesse, tentando di capire cosa combinava. Molti cosacchi erano sicuri che Boriska avrebbe spaccato la loro spada.

Invece lui aveva preso la saska, aveva baciato anche quella e poi l’aveva restituita all’ataman.

Erano rimasti tutti senza parole, e l’ataman si era messo a ridere:

«Ecco, Boriska… Sei in gamba, giapponese!»

«Non sono giapponese, sono di Iga, e la mia spada è di Iga!» aveva risposto lui.

«Bene, sei davvero un brav’uomo, Boriska, non devi mai dimenticare chi sei e mai tradire la tua tradizione… Devi essere fiero, solo così conserverai la tua dignità!»

E così Boriska era rimasto con i cosacchi ancora per tanto tempo, però da quel giorno gli era stato concesso di portare sempre con sé la sua spada.

Quando i cosacchi erano tornati in Siberia, nell’Altaj, Boriska li aveva seguiti. L’ataman l’aveva ospitato in casa sua, e lì Boriska aveva incontrato la sua futura moglie, la figlia maggiore dell’ataman, Svetlana. Si erano sposati. Boriska per rispetto verso di lei si era battezzato nella fede ortodossa con il nome di Boris, per poter fare la cerimonia in chiesa. Avevano costruito la loro casa e vivevano lì, in un piccolo paese sul fiume Amur.

Poi un giorno l’ataman era stato arrestato improvvisamente dai servizi segreti di Stalin, e dopo qualche tempo fucilato come traditore. Boriska l’aveva presa malissimo, aveva pensato che fosse tutta colpa sua, invece non c’entrava niente: in quegli anni molti cosacchi erano stati presi di mira dal governo sovietico perché non condividevano le idee comuniste, e conservavano da sempre una certa simpatia verso l’anarchia e l’autonomia.

Dopo la sua morte, l’ataman era stato dichiarato «nemico del popolo», e i membri della sua famiglia erano stati deportati in Transnistria con tanti altri siberiani.

Boriska se lo ricordava ancora, quel lungo viaggio. I treni — diceva — sostavano a lungo sui binari, e non si poteva uscire perché erano sorvegliati da soldati armati. A volte capitavano vicini due treni che andavano in direzioni opposte, su uno c’era la gente della parte europea dell’Urss che veniva mandata in Siberia, e sull’altro il contrario. Lui sentiva gridare da un treno:

«Oddio, ci portano in Siberia, fa troppo freddo li, moriremo tutti!»

E dall’altro treno rispondere:

«Oh Cristo, ci mandano in Europa, niente boschi, solo colline vuote, moriremo di fame!»

In quel viaggio Boriska ha conosciuto degli Urea siberiani. Si è affiancato a loro perché erano gli unici a non sembrargli disperati: in un certo senso andavano sul sicuro, in Transnistria c’era già ad attenderli una comunità abbastanza sviluppata.

Boriska ha raccontato la sua storia a uno di loro, un uomo anziano, rispettato da tutti gli altri, e quello lo ha rassicurato: «Non aver paura, stai vicino a noi: in Transnistria ci sono i nostri fratelli. Se sei un uomo giusto, presto avrai una casa e potrai crescere i tuoi bambini assieme ai nostri figli, che il Signore ci benedica tutti…»

Gli Urea e i cosacchi erano da sempre in sintonia, andavano d’accordo: entrambi rispettavano le vecchie tradizioni, amavano la patria e la loro terra e credevano nell’indipendenza da qualsiasi forma di potere. Entrambi sono stati perseguitati da vari governi russi in epoche diverse, per la loro voglia di libertà. Solo che gli Urea erano pili estremisti, e avevano una particolare struttura gerarchica. I cosacchi invece si definivano un esercito libero e quindi avevano una struttura paramilitare; in tempo di pace si occupavano per lo più di allevamento di bestiame.