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Arrivati in Transnistria, Boriska e la moglie sono stati ospitati da una famiglia di Urea, proprio come gli aveva promesso il vecchio.

Boriska si è sentito subito a casa. Per lui gli Urea avevano molto in comune con la gente della sua terra di origine, Iga. Erano uniti, estremamente anarchici e con una forte tradizione criminale.

Presto è entrato nel giro d’affari dei criminali siberiani, che lo rispettavano perché lui capiva tutto della loro legge, era un uomo di parola e giusto.

E poco alla volta è diventato uno di noi. Viveva nella nostra zona con la sua famiglia. Sua moglie, che noi tutti ormai chiamavamo nonna Svetlana, gli aveva dato due figli che seguivano la strada degli Urea.

Da vecchio, Boriska ha sfruttato un aggancio con il direttore dei magazzini alimentari che lo ha assunto come guardiano. Hanno fatto un accordo: il direttore non faceva casini quando la merce spariva e Boriska doveva dividere la sua fetta con lui. Organizzava ogni colpo alla perfezione, era molto preciso e serio, quando si trattava d’affari. Soprattutto sapeva gestire le sue emozioni molto bene, non l’ho mai visto perdere la testa.

Una volta, d’autunno, quando in ogni casa da noi la gente prepara le conserve per l’inverno e accende un gran fuoco dove mette a bollire un grosso pentolone pieno d’acqua, a casa nostra si sono riunite cinque famiglie vicine per fare insieme le conserve. Come al solito, le donne tagliavano le verdure e i legumi, e gli uomini badavano al fuoco e preparavano i barattoli di vetro. Noi bambini eravamo li vicini, giocavamo in mezzo agli adulti. C’era anche il vecchio Boriska, con suo figlio e i nipotini.

A un certo punto la staffa sotto il grosso pentolone si è spaccata in due, e il pentolone si è ribaltato e ha rovesciato fuori duecento litri di acqua bollente in un attimo. A pochi metri da li era seduto per terra un bimbo, figlio di un nostro vicino, zio Sanja. Io ero andato in giardino a cercare altri barattoli. Quando ho sentito il rumore del pentolone che si rovesciava, sono corso in casa e ho visto il vecchio Boriska prendere una grossa bacinella di lega, lanciarla a terra e saltarci dentro, scivolando come su una tavola da surf. E H, in quel vapore bianco e denso come la nebbia sul fiume di mattina, ho visto diventare piano piano sempre più visibile la figura di un uomo che stava dentro una bacinella con un bimbo in braccio, circondato dall’acqua bollente. La madre del bimbo ha perso i sensi, il padre, zio Sanja, si è messo a urlare; gli unici a essere tranquilli erano quei due, Boriska e il piccolino.

Aveva agito d’istinto, senza pensarci su, e dopo gli era tornato il solito aspetto sereno di sempre, come se facesse cose cosi quattro volte al giorno.

Era una persona molto interessante, mi piaceva parlare con lui, sentirlo raccontare le storie della sua vita. Andava spesso a pescare con una canna che si era fatto da solo, e mentre pescava stava con i piedi nell’acqua e cantava canzoni giapponesi. Quando ero piccolo me ne ha insegnata una molto bella: parlava di una montagna e di un giovane che l’attraversava per trovare la sua fidanzata.

Avevamo fatto un patto, con Boriska: quando passavamo dai magazzini dovevamo fare finta di non conoscerlo. Se lo vedevamo vicino al cancello, non dovevamo neanche salutarlo. Lui stava spesso H a fare la guardia in compagnia di un vecchio cane pastore che aveva problemi con le zampe di dietro e faceva fatica a spostarsi; tutti e due di solito erano seduti su una panchina, e mentre il cane dormiva Boriska leggeva il giornale. Di giornali Boriska ne leggeva solamente uno: la «Pravda», che significa «La verità», il giornale della propaganda comunista, che leggevano tutti quelli che volevano credere di vivere nel Paese più bello e libero del mondo. Nella «Pravda» qualsiasi notizia veniva trasformata in una fonte di pura propaganda: anche quando leggevi di disastri e guerre, alla fine ti veniva un senso di felicità e ti sentivi fortunato a essere finito in Urss. Non so come mai Boriska era così affezionato a quel giornale, una volta ho cercato di chiederglielo, e lui mi ha risposto letteralmente così:

«Quando sei costretto a sentire cantare le vacche, bisogna sfruttare almeno la possibilità di scegliere quella che canta meglio».

Passando vicino al cancello io guardavo sempre da un’altra parte, per non vedere neanche se Boriska c’era о meno, tanto non potevo salutarlo. Invece il mio amico Mei non riusciva mai a ricordarsi questa semplice ma importante regola. Fissava ogni volta il cancello, e se vedeva Boriska lo salutava agitando la mano in aria e sorridendo con quella sua faccia sfigurata. Allora io gli lanciavo un’occhiataccia e lui subito si ricordava del patto che avevamo fatto con Boriska e cominciava a darsi le botte da solo, picchiandosi la fronte con il palmo della mano. Era un trionfo d’idiozia, Mei. Non per niente nonno Kuzja diceva che uno come lui rischiava di far impazzire i matti.

Boriska si arrabbiava moltissimo, quando Mei lo salutava. Tornando a casa dal lavoro, veniva a cercare me о Gagarin e diceva con la voce piena di rabbia, però bassa, cantilenante:

«E così state bene, siete finalmente diventati ricchi!»

«Che dici? Non siamo ricchi…»

«E invece sì che siete ricchi, perché vi permettete di rifiutare di lavorare con me, di guadagnare i soldi…»

A quelle parole mi venivano i capelli dritti. Rifiutare di lavorare con Boriska significava dire addio alla metà dei nostri guadagni.

«Non abbiamo fatto niente, zio Boriska».

«Niente, come no. Insegnate a quell’imbecille del vostro amico come ci si comporta. E se non ci arriva, non portatelo più davanti ai magazzini, fate il giro largo piuttosto…»

Noi parlavamo con Mei, gli rispiegavamo tutto da capo, ma era inutile. La volta dopo, appena ci avvicinavamo ai magazzini, cercava il vecchio per salutarlo. Era come una punizione per noi, la sua presenza.

Un giorno, passando vicino a casa di Boriska, nel nostro quartiere, ci siamo fermati per scambiare due parole con lui. Mentre parlavamo, ci siamo accorti che Mei stava lontano, dall’altra parte della strada, girato di schiena. Boriska ci ha guardati tutti quanti, poi ha indicato lui, e la faccia gli è diventata a un tratto molto seria.

«Per il vostro bene, sbarazzatevi del vostro amico, — ci ha detto. - Non portatevelo più dietro, farà solo guai. Anzi, sono disposto a pagarlo purché se ne stia a casa e non vada in giro».

Io gli ho detto, facendo finta di non capire:

«Ma zio Boriska… E vero, Mei è un po’ stordito, però è un bravo ragazzo».

Boriska mi ha guardato come se gli avessi parlato in una lingua che non capiva.

«Un po’ stordito, dici? Ma guardalo: è un disastro, quello! Neanche lui sa che cosa sta succedendo dentro la sua testa! Sentite, io vi voglio bene, per questo vi dico le cose come stanno. Voi siete ancora giovani, il vostro amico adesso vi fa ridere, ma presto combinerà tanti di quei guai che vi farà piangere».

Che parole sante erano quelle, peccato che l’ho capito troppo tardi, molti anni dopo.

Quando ce ne siamo andati ho chiesto a Mei perché se n’e-ra stato in disparte. Lui mi ha fatto una faccia da torturato, piena di sofferenza, e ha detto quasi piangendo:

«Prima mi dite di non salutarlo, poi lo saluto e mi sgridate, dopo non lo saluto e mi sgridate lo stesso! Io non ci capisco più niente, per me può anche non esistere ’sto Boriska!»

Io ho riso, ma aveva ragione Boriska: c’era poco da ridere. E avremmo dovuto capirlo da tempo.

Quando avevamo una decina d’anni, siamo andati al cinema a vedere un film che si chiamava Lo scudo e la spada. Il protagonista, un agente segreto sovietico, si esibiva in varie scene d’azione, sparando ai nemici capitalisti con la sua silenziosa pistola e facendo un sacco d’acrobazie. Quello rischiava la vita come se stesse facendo una cosa normale, di routine, per combattere l’ingiustizia nei Paesi della Nato. Era una specie di risposta nostrana ai tanti film americani e inglesi sulla guerra fredda, dove di solito i sovietici apparivano come stupide e incapaci scimmie che giocavano con la bomba atomica e volevano distruggere il mondo. Noi, nonostante il divieto dei nostri vecchi, eravamo andati a vederlo nell’unico cinema della città (non c’era ancora il secondo cinema, destinato a durare pochissimo, distrutto nella guerra del ’92: proprio lì dentro si piazzeranno i militari rumeni, e i nostri padri per ucciderli faranno saltare in aria di notte tutto il complesso, insieme al ristorante e alla gelateria). Bene, in quel film a un certo punto il protagonista saltava dal tetto di un palazzo altissimo usando un grande ombrello al posto del paracadute, per poi atterrare comodamente e senza danni. In poche parole, faceva quello che ha sempre fatto Mary Poppins.