Il giorno dopo, senza dire niente a nessuno, Mei si è buttato con un ombrellone parasole dal tetto della biblioteca centrale, un palazzo alto tre piani, con sotto una bella zona verde piena di castagni e betulle. Precipitando su un albero, una betulla, è riuscito a spaccarsi una mano e una gamba, a rimediare un trauma cranico e a infilzarsi la pancia col bastone dell’ombrellone. Un mare di sangue, sua madre disperata, lui quasi per sei mesi da un ospedale all’altro.
Prenderlo in giro mi pareva un buon modo per fargli capire dove poteva portarlo la sua ingenuità. Un’altra volta, quando avevamo già quattordici о quindici anni, Mei era a casa mia, preparavamo il tè da bere nella sauna. Lui improvvisamente se n’è uscito con i Paesi tropicali, dicendo che non sarebbe stato male vivere li, secondo lui potevamo starci bene, perché non faceva mai freddo.
«C’è troppa umidità, - gli ho detto io, — piogge che durano tanto tempo. E uno sputo di terra, che cosa ci facciamo И?»
«Se piove ci ripariamo in una capanna. E pensaci, sulle isole non serve la macchina, si può girare in bici e c’è sempre una barca a disposizione. E gli indiani…»
Erano tutti indiani per lui. Indiani d’America. Pensava che gli indigeni di qualunque Paese girassero sempre a caval lo con le piume colorate in testa e le facce dipinte.
«… gli indiani, — ha continuato, — sono gente in gamba.
Sarebbe bello diventare come loro».
«E impossibile, — l’ho provocato io, — portano i capelli lunghi come gli omosessuali».
«Ma che dici? Non sono omosessuali. E solo che non hanno le forbici per tagliarsi i capelli. Guarda, — mi ha detto, tirando fuori dalla tasca un soldatino di plastica dai colori sbiaditi che portava sempre con sé, un guerriero indiano in posizione di combattimento, con un coltello in mano. - Vedi? Se ha il coltello non può essere un omosessuale, altrimenti non gli avrebbero permesso di offendere un’arma!»
Era bello vedere come lui applicava le nostre regole siberiane agli indiani. Era vero, da noi un «gallo», cioè un omosessuale, è un reietto: se non lo ammazzano gli tolgono la possibilità di ogni contatto con la gente, ma soprattutto gli vietano di toccare oggetti di culto come la croce, il coltello, le icone.
Non avevo nessuna intenzione di smontargli le sue fantasie sulla favolosa vita eterosessuale degli indiani. Volevo so lo divertirmi. Così sono passato a lavorarlo ai fianchi, punzecchiandolo sull’argomento che per lui era sacro: il cibo.
«Non fanno la zuppa rossa», ho detto in un fiato.
Mei si è fatto molto attento. Il suo collo si è allungato:
«Come non c’è la zuppa… E che si mangia allora?»
«Beh, in effetti non hanno tanto da mangiare, lì fa caldo, non gli servono i grassi per resistere al freddo, si accontentano della frutta che cresce sugli alberi, di qualche pesce…»
«Il pesce fritto non è male», ha tentato di difendere la cucina tropicale.
«Scordati il pesce fritto, lì non fanno cuocere niente, mangiano tutto crudo».
«E i frutti?» ha chiesto sconsolato.
«Noci di cocco».
«E come sono?»
«Buone».
«E tu come fai a saperlo?»
«Mio zio ha un amico di Odessa che fa il marinaio. Una settimana fa mi ha portato un cocco con il latte dentro».
«Il latte?»
«Latte, sì, solo che non viene preso dalla mucca ma dall’albero, sta dentro il frutto».
«Ma dai, fammelo vedere!» Si è acceso in cinque secondi e con tutto il suo aspetto mi faceva capire che stava ingoiando la mia esca. Dovevo solo tirare la corda.
«Purtroppo il frutto l’abbiamo già mangiato, però se vuoi provarlo mi è rimasto ancora un goccino di latte».
«Sì, fammelo assaggiare!» Saltava sulla sedia, tanto voleva ’sto latte.
«E va bene, te lo do, l’ho messo in cantina, al fresco. Aspettami due secondi e te lo porto!»
Ridendo come un bastardo sono uscito di casa e sono andato nella casetta degli attrezzi dove mio nonno teneva tutto l’utile e l’inutile per la casa e l’orto. Ho preso una tazza di ferro, ci ho messo dentro un po’ di stucco bianco e un goccio di gesso. Per dare al liquido la giusta densità, ho aggiunto un po’ d’acqua e un po’ di colla per piastrelle. Ho girato il tutto con il bastoncino di legno che mio nonno usava per pulire i nidi dei colombi dalla loro merda. Poi, con affetto, ho portato la magica pozione a Mei.
«To’, ma non berlo tutto, lasciane anche per gli altri».
Come non detto: appena ha preso la tazza in mano, Mei l’ha svuotata in quattro sorsi. Poi ha fatto una smorfia e nell’occhio buono gli è apparsa una timida ombra di dubbio.
«Forse è andato un po’ a male in cantina, non so, all’inizio era buonissimo», ho detto tentando di salvare la situazione.
«Già, dev’essere andato a male…»
Da quel giorno ho cominciato a chiamarlo «Cunga-Canga», e lui non ha mai capito perché.
Cunga-Canga era un cartone molto amato dai bambini in Unione Sovietica. Era disegnato abbastanza male, con una tecnica tipo quella usata nei manifesti di propaganda comunista: tutti colori forti, figure piene e senza sfumature, molto stilizzate, proporzioni non rispettate apposta, per creare un effetto da teatro di marionette.
In quel cartone si promuoveva l’amicizia tra i bambini del mondo con la storia di un bimbo sovietico che va a trovare un bimbo di colore su un’isola, che si chiamava appunto Cunga-Canga. Il bimbo sovietico aveva uno sguardo molto deciso (come tutti i comunisti e i loro parenti), una nave a vapore, un cagnolino di dimensioni ridotte ma anche lui dall’aspetto comunista, ed era vestito da marinaio. Il bimbo di colore era nero come la notte senza luna e aveva addosso solamente una specie di gonnellino di foglie, i suoi amici erano una scimmia e un pappagallo; poi apparivano anche il coccodrillo, l’ippopotamo, la zebra, la giraffa e il leone, che ballavano tutti insieme tenendosi per le zampe, formando un cerchio.
Il cartone durava in tutto un quarto d’ora, e più di dieci minuti erano riempiti da tre canzoni, con qualche cortissimo dialogo nello spazio tra l’una e l’altra. La canzone che ha fatto storia, amata da tutti i bambini dell’Urss, era l’ultima. Lì, accompagnata da una musichetta allegra e commovente, una voce femminile raccontava della vita felice e senza problemi nell’isola Cunga-Canga: