Dito ha subito cambiato faccia, ha sorriso e ci ha invitati a entrare. Ci ha portati a un tavolo con una pentola piena di cifir appena fatto.
— Dài, ragazzi, servitevi. Perdonatemi ma non ho nient’al-tro, solo questo. Sono appena uscito, l’altro ieri… Che casino la libertà, così tanto spazio, mi gira ancora la testa…
Mi piaceva la sua ironia, ho capito che potevo rilassarmi.
Ci siamo seduti, dicendogli che non doveva preoccuparsi per noi. Mentre facevamo girare la tazza di cifir tra noi tre, Dito ha aperto la lettera del nostro Guardiano. Dopo qualche istante ha detto:
— Devo tornare con voi nel vostro quartiere, qua c’è scritto che m’invitano a parlare…
Io e Mei ci siamo guardati. Dovevamo raccontargli per forza la nostra avventura, è da infami portare una persona in giro senza dire che si è nei guai.
Ho deciso di parlare io, anche perché lasciare parlare Mei significava complicare le cose. Ho riempito i polmoni d’aria e ho buttato fuori tutto: la mia guerra con l’Avvoltoio, la trappola di Barba e della sua banda di giovani tossici, la scuola…
Dito ascoltava con attenzione, seguendo ogni piccolo particolare come fanno i carcerati. Le storie sono l’unico divertimento dei criminali in galera: si raccontano a vicenda la vita un pezzo per volta, a puntate, e quando finiscono passano alla vita di qualcun altro.
Alla fine gli ho detto che se non voleva correre pericoli venendo con noi, poteva rimandare la sua visita al giorno dopo. Lui si è opposto:
— Tranquilli, se capita qualcosa sono con voi.
Non ero contento, perché sapevo che a Ferrovia i giovani non rispettavano i vecchi. Spesso gli facevano gli agguati sotto casa, quando quelli tornavano ubriachi, e li picchiavano per prendere qualsiasi cosa avevano dietro, per poi mostrarlo agli altri come un trofeo. Dito poi non era un criminale autorevole, da quello che si leggeva nei suoi tatuaggi era uno che per qualche motivo si era affiancato ai siberiani in carcere: sul collo aveva una firma siberiana, il che voleva dire che la comunità lo proteggeva, forse perché aveva fatto qualcosa d’importante per noi.
Mentre io stavo pensando a tutto questo, Dito nel frattempo s’era già bell’e che vestito, con una giacca piena di cuciture, le scarpe rovinate, e una sciarpa verde che quasi toccava terra.
Per strada ci siamo messi a parlare. Dito ha raccontato che stava in carcere da quando aveva sedici anni. Era finito dentro per un incidente stupido: era ubriaco, e senza accorgersene aveva dato una bastonata un po’ troppo forte a uno sbirro, che era morto sul colpo. Nel carcere minorile si era affiancato alla famiglia siberiana, perché — diceva — erano gli unici che stavano uniti e non picchiavano la gente, facevano tutto insieme e non obbedivano a nessuno. Nel carcere per adulti era arrivato già come membro della famiglia siberiana, e gli altri lo avevano accolto. Si era fatto ventanni di prigione, e quando stava per uscire un vecchio gli aveva proposto di andare a vivere nell’appartamento che avevamo visto.
Adesso voleva avvicinarsi alla gente del nostro quartiere: era quella — diceva — la sua famiglia. Per questo aveva chiesto alle vecchie autorità siberiane in prigione di contattare il Guardiano di Fiume Basso.
Si sentiva parte della nostra comunità, e questa cosa mi faceva piacere.
Camminando, mi era venuta un’idea. Visto che avevamo bisogno di rinforzi, avevo deciso di passare da un amico che abitava non troppo lontano. Era un ragazzo di nome «Geka», diminutivo di Evgenij. Ci conoscevamo da quando eravamo piccoli, lui era figlio di una pediatra molto in gamba che si chiamava zia Lora.
Geka era un ragazzo colto, sveglio ed educato, non faceva parte di nessuna banda, preferiva una vita tranquilla. Aveva tanti interessi e mi piaceva per questo, ero stato parecchie volte a casa sua ed ero affascinato dalla collezione di modellini di aerei da guerra, che montava e dipingeva lui. Sua madre mi permetteva di prendere alcuni libri dalla sua biblioteca, è cosi che ho conosciuto Dickens e Conan Doyle, e soprattutto l’unico eroe letterario, sbirro e infame, che mi sia mai stato simpatico: Sherlock Holmes.
Geka passava tutta l’estate con noi sul fiume, gli abbiamo insegnato a nuotare, a fare la lotta, a usare il coltello in una rissa. Ma aveva gli occhiali, e per questo motivo faceva una pena infinita a mio nonno: portare gli occhiali per i siberiani è come sedersi volontariamente su una sedia a rotelle, è un segno di debolezza, una sconfitta personale. Anche se non vedi bene non devi mai metterti gli occhiali, per conservare la tua dignità e il tuo aspetto sano. Così, quando Geka veniva a casa nostra, nonno Boris lo portava nell’angolo rosso, s’inginocchiava insieme a lui davanti all’icona della Madonna siberiana e a quella del Salvatore siberiano, e poi, facendo mille segni della croce, pronunciava la sua preghiera, che Geka era obbligato a ripetere parola per parola:
«Oh Madre di Dio, Santa Vergine, patrona di tutta la Siberia e protettrice di tutti noi peccatori! Assisti al miracolo del Nostro Signore! Oh Signore Nostro, Salvatore e Compagno nella vita e nella morte, Tu che benedici le nostre armi e i nostri miserabili sforzi per portare la Tua legge nel mondo del peccato, Tu che ci rendi forti davanti al fuoco dell’inferno, non abbandonarci nei momenti di debolezza! Non per mancanza di fede, ma per amore e rispetto verso le Tue creature, Ti prego, fai un miracolo! Aiuta il Tuo schiavo miserabile Evgenij a trovare la Tua strada e a vivere nella pace e in salute, per cantare la Tua gloria! Nei nomi delle Madri, dei Padri, dei Figli e dei nostri risorti tra le Tue braccia, ascoltaci e porta la Tua luce e il Tuo calore nei nostri cuori! Amen!»
Finita la preghiera, nonno Boris si alzava sulle ginocchia e si girava verso Geka. Poi, facendo gesti solenni e spettacolari come a teatro, gli toccava con le dita gli occhiali e, dicendo la frase seguente, lentamente glieli sfilava:
«Come tante volte mi hai messo la Tua forza nelle mani per stringere il coltello contro gli sbirri, e hai indirizzato la mia pistola per colpirli con pallottole da Te benedette, dammi il Tuo potere per sconfiggere la malattia del Tuo umile schiavo Evgenij!»
Tolti gli occhiali, partiva subito la domanda a Geka: «Allora dimmi, mio angelo, adesso ci vedi bene?»
Per rispetto verso di lui Geka non aveva cuore di dirgli di no.
Nonno Boris si girava verso le icone e ringraziava il Signore con le consuete formule:
«Che sia fatta la Tua volontà, Nostro Signore! Finché siamo vivi e protetti da Te, il sangue degli sbirri, dei diavoli infami e dei servitori del male scorrerà in abbondanza! Ti siamo riconoscenti per il Tuo amore».
Poi chiamava tutta la famiglia e annunciava che era appena avvenuto un miracolo. Alla fine restituiva gli occhiali a Geka davanti a tutti, dicendo:
«E adesso, mio angelo, adesso che vedi, rompi ’sti occhiali inutili!»
Geka li metteva in tasca, bofonchiando:
«Non ti arrabbiare, nonno Boris, li romperò più tardi».
Mio nonno gli accarezzava la testa e diceva con la voce dolce e piena di gioia:
«Rompili quando vuoi, figliolo, basta che tu non li metta mai più».
La volta dopo, per non farlo arrabbiare, Geka si presentava a casa nostra senza occhiali, se li toglieva fuori dalla porta, prima di entrare. Nonno Boris, vedendolo, diventava tutto una gioia completa.
Beh, tornando a noi: Geka viveva insieme a sua madre e a uno zio che aveva alle spalle una storia incredibile, era una specie di materializzazione della rabbia divina, della condanna vivente a cui era destinata questa simpatica e buona famiglia. Si chiamava Ivan, e la gente l’aveva soprannominato «il Terribile». Il paragone con il grande tiranno era ironico, perché Ivan era buono come il pane. Era un uomo sui trentacin-que anni, basso e magro, con i capelli e gli occhi neri, e le dita delle mani disumanamente lunghe. Era stato un musicista di professione, prima di cadere in disgrazia; a diciotto anni suonava il violino in un’orchestra importante, a San Pietroburgo, e la sua carriera di musicista sembrava andare in salita come un missile intercontinentale sovietico. Ma un giorno Ivan era finito nel letto di una simpatica troia di quell’orchestra, una violoncellista, moglie di un importante membro del partito comunista. Aveva perso la testa per lei, aveva reso pubblica la loro relazione ed era arrivato persino a chiederle di separarsi dal marito. Povero ingenuo musicista, non sapeva che i membri del partito non avevano il diritto di divorziare, perché loro e le loro famiglie dovevano essere un esempio di «cellula» perfetta della società sovietica. E che razza di cellula siete, se divorziate quando vi pare? Le nostre cellule devono essere dure come acciaio, о meglio dello stesso materiale con cui si fabbricano i nostri carri armati e i famosi fucili d’assalto Kalasnikov. Avete mai visto un carro armato sovietico difettoso? О un Kalasnikov che s’inceppa? Le famiglie devono essere perfette come le armi.