Ho messo due dita dentro il buco del giubbotto e accuratamente ho tirato fuori la lama: era un coltello da caccia, largo e molto affilato. «Porca troia, — ho pensato, — se mi prendeva ci rimanevo secco. Quando torno a casa metto una candela davanti all’icona della Madonna».
Passando sopra il corpo del nemico e stringendo il suo coltello nella mano sinistra, sono andato incontro a Geka, che da terra cercava di evitare i colpi di un bastone impugnato da un ragazzo robusto. Geka si appoggiava sul braccio destro e con quello sinistro cercava di parare il parabile. Ho sorpreso il suo aggressore alle spalle e gli ho affondato la lama della picca nella coscia.
La lama del mio coltello era bella lunga ed entrava bene dentro la carne, era l’ideale per disattivare le persone, perché penetrava senza problemi nei muscoli fino a toccare le ossa.
Con il coltello da caccia, contemporaneamente, gli ho tagliato i legamenti dietro il ginocchio dell’altra gamba. Con un grido di dolore, il ragazzo robusto è caduto a terra.
Geka si è alzato in piedi, ha raccolto il bastone e insieme ci siamo buttati verso Mei, che aveva preso uno e urlando come un matto lo stava colpendo con il coltello nella zona del lo stomaco, mentre in tre tentavano di fermarlo scaricandogli sulla testa e sulla schiena bastonate su bastonate. Se ne prendevo io così tante morivo di sicuro, solo grazie al suo fisico Mei riusciva a tenersi in piedi.
Mi sono lanciato con il coltello contro uno che stava per dare una potente bastonata sulla testa di Mei. Sono arrivato da dietro, e gli ho tagliato un legamento.
Geka ha colpito sulla testa un altro che è subito svenuto, dal suo orecchio ha iniziato a uscire sangue. Il terzo è scappato verso uno dei cortili da dove un attimo prima erano usciti tutti loro.
Fima e Ivan, intanto, armati di bastoni, stavano massacrando vicino al marciapiede due tipi che erano caduti a terra. Uno era ridotto molto male, Fima sicuramente gli aveva spaccato il naso e la faccia era piena di sangue; alzava le mani tremolanti per istinto, per coprirsi la faccia dalle botte, ma Fima lo colpiva lo stesso, con cosi tanta violenza che il bastone rimbalzava su quelle mani come se fossero di legno, tipo quelle di un burattino: era evidente che Fima gliele aveva rotte. Pieno di rabbia, furioso, Fima lo picchiava urlando:
— Chi è che vuole ammazzare un marinaio sovietico? Eh? Allora? Chi è ’sto fascista di merda?
Ivan nel frattempo cercava di bastonare la faccia dell’altro aggressore, che era bravo a scansare i colpi girandosi da una parte e dall’altra. Ce l’aveva quasi fatta, a un certo punto, ma all’ultimo ha mancato la faccia e il bastone di Ivan ha sbattuto contro l’asfalto gelato, coperto di neve rossa, rossa del sangue che appena cadeva a terra diventava duro come ghiaccio. Il bastone si è rotto in due, Ivan si è arrabbiato e ha buttato via il pezzo che gli era rimasto in mano. Poi ha fatto un salto a piedi uniti sulla testa del ragazzo e ha cominciato a pestargli la faccia con i piedi, lanciando uno strano urlo di guerra, come quelli degli indiani che attaccano i cowboy nei western americani.
Erano veramente pazzi, quei due.
In un attimo, lo scontro era già finito.
Dall’altra parte della strada c’era Dito, stringeva nelle mani un coltello e un bastone, e sotto i suoi piedi c’era un ragazzo con un taglio che partiva dalla bocca e finiva in mezzo alla fronte: troppo profondo, brutta roba. Il ragazzo era sdraiato, cosciente ma immobile, credo terrorizzato dal sangue e dal dolore.
Mei teneva stretto per il bavero il tipo che prima aveva colpito in pancia con il coltello. Guardava stupito la sua lama, spezzata in due. Mi sono avvicinato a lui e ho strappato con un gesto secco la giacca del tipo, tutta piena di buchi. Sulla neve sono caduti una ventina di giornali spessi, incollati uno all’altro: da quel pacco di carta spuntava la parte mancante della lama di Mei.
Sorpreso e incredulo, Mei guardava quella scena come se fosse uno spettacolo di magia.
Ho preso da terra il pacco di carta, l’ho tenuto un po’ in mano, soppesandolo. Poi, mettendoci tutta la forza che avevo, ho dato una sberla in faccia a Mei con quel fascio di giornali, provocando un forte rumore, come quando un’ascia spacca il ceppo di legno.
La sua guancia è diventata subito rossa, Mei ha mollato il collo del ragazzo e si è portato la mano sulla zona colpita. Con voce agitata mi ha chiesto:
— Che ti è preso? Perché diavolo ce l’hai con me?
L’ho colpito una seconda volta e lui ha fatto due passi indietro, mettendo una mano davanti, per fermarmi.
Gli ho risposto:
— Cosa ti avevo detto, cretino, colpire le cosce, non il torso! Mentre tu facevi il coglione con quel tossico e ti pigliavi mazzate dai suoi tre amici, io ho beccato la lama seria. Cazzo, c’è mancato un pelo, per poco non mi seccavano! E tu dov’eri, perché non mi hai coperto le spalle?
Lui ha subito fatto una faccia tristissima — sguardo basso, testa china, la bocca leggermente aperta — e con la voce di chi chiede l’elemosina si è messo a brontolare frasi incomprensibili, come faceva ogni volta che aveva torto:
— Ha-m-m-m… Kolima… nou-ou-ou volevo solo-o-o-o… ghm-hm-hm… scusa-a-a-a…
— Scusa un bel cazzo, — l’ho interrotto io. - Voglio tornare a casa e festeggiare il mio compleanno, non il mio funerale. E allora ascoltami quando parlo. Non è il momento di fare i coglioni, ci rimettiamo la pelle in questa faccenda di merda. E non dimenticare che non siamo soli, ci sono delle persone con noi, ci danno una mano, non possiamo esporli troppo. E meno male che ci sono, perché con un amico come te sarei già morto.
Mei si è fatto ancora pili piccolo e, come sempre in quelle occasioni, ha preso la forma della mia ombra personale. Ha cominciato a coprirmi le spalle, anche se con un leggero ritardo.
La strada somigliava al luogo di una strage, tutta la neve era rossa di sangue, gli aggressori si trascinavano ai bordi del marciapiede, decisamente malridotti.
Mi sono avvicinato a quello che Mei aveva tentato di accoltellare: era spaventato, anche se non aveva addosso neanche un graffio. Dovevo fare il cattivo. L’ho preso per il collo e ho tentato di tirarlo su, ma non riuscivo ad alzarlo, era più pesante di me, allora mi sono abbassato io, gli ho punzecchiato la coscia con il coltello, fino a quando ha cominciato a uscire un po’ di sangue. Lui ha urlato e si è messo a piangere, chiedendomi di non ammazzarlo. Gli ho dato una sberla forte, per farlo smettere:
— Chiudi il becco, finocchietto! Lo sai contro chi ti sei messo, coglione? Lo sai che noi di Fiume Basso veniamo battezzati coi coltelli? Pensavi veramente di poterci ammazzare? Faccio risse da quando avevo sette anni, ne ho aperti cosi tanti di quelli come te che non mi basterebbe una vita a contarli.
Esageravo un po’ sulla quantità delle vittime, ovvio, ma dovevo spaventarlo, seminare paura, perché il nemico terrorizzato è già metà sconfitto. I prossimi (non dubitavo che presto ci saremmo battuti con gli altri) dovevano avere la cresta bassa, ecco.
— Per questa volta non ti ammazzo, dato che oggi è il mio compleanno e dato che è la prima volta che ci scontriamo, ma se ti becco ancora sulla mia strada non avrò nessuna pietà. Quando vedi l’Avvoltoio, digli che Kolima gli manda i suoi saluti, e che se lo incontro entro stasera lo apro come un maiale…
Quel povero coglione, con il sangue che gli usciva dalla coscia e la faccia terrorizzata, mi guardava come se mi stessi appropriando della sua anima.
Ci siamo rimessi per strada: Fima con un grande bastone, Ivan con un manganello rotto che aveva recuperato da terra, Geka con una spranga di ferro, Dito con un coltello e un bastone, io con due coltelli in tasca, e infine la mia seconda ombra con la faccia umile, un bastone e un coltello spezzato a metà in mano.