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— Fuori, fuori da qui! — mi ha indicato la porta.

Senza salutarlo ho girato i tacchi e sono uscito dal suo ufficio. Fuori mi aspettava un soldato, che mi ha fatto un saluto militare.

— Sergente Glasunov! Seguitemi, compagno! — ha detto con una voce che aveva lo stesso suono del carrello di un Kalasnikov quando manda in canna la carica.

«Un cane pulcioso è il tuo compagno», ho pensato io, ma ho detto con tono umile:

— Chiedo scusa, signor Sergente, posso usare i servizi?

Lui mi ha guardato con un’aria strana, ma non mi ha detto di no.

— Certo, giù per il corridoio e poi a destra!

Ho fatto tutto il giro, lui mi ha seguito e quando sono entrato in bagno è rimasto fuori ad aspettarmi.

Nel bagno sono salito sulla finestra in alto, e dato che non aveva le sbarre sono saltato giù senza problemi. Fuori, nel giardino dietro l’ufficio, non c’era nessuno.

«Che ’sto manicomio bruci, io me ne vado a casa…»

Pensando questo e altre cose simili ho cominciato a camminare verso l’uscita dalla base. Li la guardia mi ha bloccato. Era un soldato giovane, forse come me, molto magro e con un occhio leggermente strabico.

— Documenti!

— Non ce li ho con me, sono venuto a trovare un amico…

Il soldato mi ha guardato con sospetto.

— Mostra il tuo permesso per lasciare la base!

A quelle parole ho perso l’anima, che mi è caduta tra i piedi. Ho deciso di fare lo scemo:

— Ma che permesso, cosa dici, apri ’sta porta, devo uscire… — Sono andato verso la porta, superando il soldato, lui mi ha puntato il mitra addosso, urlando:

— Fermo о sparo!

— Ma levati! — ho risposto io, prendendo il fucile per la canna e strappandoglielo dalle mani.

Il soldato ha cercato di colpirmi in faccia con un pugno, ma mi sono difeso con il calcio del fucile. Improvvisamente da dietro qualcuno mi ha dato una forte botta in testa, ho sentito le gambe molli e la bocca secca. Ho fatto due respiri profondi, e al terzo ho perso i sensi.

Mi sono svegliato pochi minuti dopo. Ero sdraiato a terra, circondato da soldati. C’era anche il Sergente che mi doveva accompagnare, era preoccupato, girava lì intorno dicendo a tutti con tono da complotto:

— Non è successo niente, è tutto a posto, mi raccomando, nessuno ha visto niente, di lui mi occuperò io.

Era evidente che aveva paura di essere punito per la sua leggerezza.

Si è avvicinato e mi ha dato un calcio dritto sulle costole.

— Fallo ancora, bastardo, e ti ammazzo personalmente!

Mi ha scaricato ancora un paio di calci, poi mi ha teso la mano e mi ha aiutato ad alzarmi in piedi. Mi ha accompagnato in una specie di casa con le sbarre alle finestre e la porta blindata. Somigliava proprio a un carcere.

Siamo entrati, c’era poca luce e tutto sembrava sporco e grigio, non curato, abbandonato. C’era un corridoio piccolo e stretto, con tre porte blindate. Al fondo del corridoio è apparso un soldato, uno che poteva avere vent’anni, un po’ magro ma con la faccia buona. Teneva tra le mani un grosso mazzo di chiavi di diverse misure e lo muoveva in continuazione facendo un rumore strano, che in quella situazione mi ha fatto quasi piangere dalla tristezza e dalla disperazione. Con una di quelle chiavi il soldato ventenne ha aperto una porta, e il Sergente mi ha fatto entrare in una stanza molto piccola e stretta, con una finestrella con le sbarre. C’era una branda di legno attaccata al muro.

Guardavo quel posto e non riuscivo a crederci. Cosi, semplicemente, da un momento all’altro, ero finito in una cella.

11 Sergente, con un tono molto autoritario, ha detto al soldato che doveva essere una specie di guardia:

— Dagli da mangiare per cena come a tutti gli altri, e fai attenzione: è uno violento… Non accompagnarlo in bagno da solo, sveglia il tuo compagno e andate insieme, è pericoloso, ha aggredito la guardia al cancello, voleva rubargli il mitra…

Il soldato con le chiavi mi guardava tutto impaurito: era chiaro che non vedeva l’ora di chiudermi dentro a chiave.

Il Sergente mi ha fissato in faccia e ha detto:

— Stai qui e aspetta!

Anch’io lo fissavo dritto negli occhi, senza nascondere il mio odio.

— Che cazzo devo aspettare, cosa significa tutto questo?

— Aspetta la fine del mondo, pezzo di merda! Se ti dico di aspettare, aspetta e non fare domande. Qui lo decido io cosa devi aspettare!

Detto questo, il Sergente ha fatto cenno al soldato di chiudere la porta ed è andato via con aria trionfale.

Prima di chiudermi dentro, il soldato si è avvicinato e mi ha fatto una domanda:

— Come ti chiami, ragazzo?

La sua voce sembrava tranquilla e non cattiva.

— Nicolai, — ho risposto io piano.

— Stai tranquillo, Nicolai, qui sei più al sicuro che con loro… Riposati, che tra un paio di giorni ti accompagneranno al treno che ti porta in Russia, nella brigata a cui sei destinato… Ti hanno già detto dove ti mandano?

— Il Colonnello ha detto che mi mandano nei sabotatori… — ho risposto con la voce sfinita.

Lui ha fatto una pausa e poi ha chiesto con agitazione:

— I sabotatori? Cristo Santo, ma che male gli hai fatto? Cos’hai combinato per meritarti questo?

— Ho ricevuto un’educazione siberiana, — ho risposto mentre lui chiudeva la porta.

Autore

La vita di un ragazzo siberiano educato da un’intera comunità criminale a diventare una contraddizione vivente, e cioè un «criminale onesto».

Le avventure di strada, le giornate al fiume, gli scontri tra adolescenti guerrieri.

E soprattutto il sapere dei vecchi, che portano l’esistenza tatuata sulla pelle e trasmettono con pazienza e rigore il loro modo di capire il mondo. La Transnistria, terra di tutti e di nessuno, crocevia di traffici internazionali e di storie d’uomini.

Una grande epopea criminale raccontata da chi l’ha vissuta, con una forza che ti agguanta e non ti lascia più.

«Senza pensare ho preso la mitica Tokarev di mio nonno e sono corso dietro ai poliziotti. L’unica cosa che sentivo era una specie di gioia di esistere. Mi sono fermato davanti a uno di loro, i suoi occhi erano stanchi e tristi. Ho mirato alla faccia, ho cercato di premere il grilletto con tutte le mie forze, ma non riuscivo a muoverlo di un millimetro.

Mio padre ha cominciato a ridere: Vieni qui, piede scalzo! Non va bene sparare in casa, non lo sai?»

Nicolai Lilin, di origine siberiana, è nato in Transnistria nel 1980 e da qualche anno vive in Italia. Questo è il suo primo romanzo, ed è stato scritto direttamente in italiano.