Io non ero affascinato dalla politica americana, solo dalla musica e dai libri di qualche scrittore. Una volta, scegliendo il momento giusto, ho provato a spiegarlo a nonno Kuzja: speravo che lui con i suoi poteri potesse intercedere per me e ottenere il permesso di farmi ascoltare la musica e leggere i libri americani senza dovermi nascondere dai miei famiglia-ri. Mi ha guardato come se l’avessi tradito e ha detto:
— Figliolo, lo sai perché quando c’è la peste la gente brucia tutto ciò che apparteneva ai malati?
Io ho fatto un gesto negativo con la testa. Ma già immaginavo dove voleva andare a parare.
Lui ha fatto un triste sospiro e ha concluso:
— Il contagio, Nicolai, il contagio.
E cosi, dato che tutto ciò che era americano era vietato, com’era vietato esibire la ricchezza e il potere attraverso le cose materiali, la gente del nostro quartiere si vestiva molto umilmente. Noi ragazzi eravamo messi proprio male con l’abbigliamento, ma ne eravamo anche orgogliosi, portavamo come trofei le scarpe vecchie di nostro padre о dei nostri fratelli più grandi, i loro vestiti fuori moda, che dovevano sottolineare l’umiltà e la semplicità siberiana.
Era impressionante come i nostri vecchi gestivano il denaro. Eravamo una comunità antica e molto ricca, le case nella nostra zona erano enormi, la gente avrebbe potuto vivere «alla grande», come si dice da noi e da voi, godersi fino in fondo la vita, invece il denaro veniva usato in maniera strana: niente vestiti, gioielli, macchine costose, giochi d’azzardo; i siberiani spendevano volentieri i loro soldi solo per due cose: armi e icone ortodosse. Eravamo tutti pieni di armi, e anche di icone, che costavano tantissimo.
Per il resto eravamo umili, umili e in divisa. D’inverno portavamo tutti pantaloni imbottiti, neri о blu scuro, molto caldi e comodi. Le giacche erano di due tipi: о la classica fufajka imbottita con cui ai tempi dell’Urss si vestiva metà della popolazione, perché era la giacca che davano ai lavoratori, о la tulup, con un enorme collo di pelliccia che si poteva alzare fino agli occhi per proteggersi dal freddo più forte. Io portavo la fufajka, perché era più leggera e mi permetteva di muovermi abbastanza bene. Le scarpe erano pesanti, imbottite di pelliccia, e si usavano anche lunghe calze di lana per non rischiare il congelamento. In testa si portava il cappello di pelliccia: io ne avevo uno bellissimo, di ermellino bianco, molto caldo, leggero e comodo.
D’estate mettevamo normali pantaloni di stoffa, sempre con la cintura, secondo la regola siberiana. La cintura è legata alla tradizione dei cacciatori, per i quali era ben più di un portafortuna: era una richiesta d’aiuto. Se un cacciatore si perdeva nel bosco, о gli succedeva qualcosa, legava la cintura al collo del suo cane e lo mandava a casa; così, quando gli altri vedevano tornare il cane capivano che era nei guai.
Insieme ai pantaloni si portava una camicia, di solito bianca о grigia, con il collo dritto e i bottoni sulla destra, che si chiama kosovorotka, «colletto storto». Sopra la camicia giacche leggere, grigie о nere, molto grezze, all’uso militare. E sulla testa infine il mitico cappello dei criminali siberiani, una specie di bandiera, chiamato «otto triangoli». E fatto da otto pezzi di stoffa cuciti insieme in modo da formare una specie di cupola con un bottone in cima; ha anche una piccola visiera. Il colore non può che essere chiaro, se non bianco. In Russia questo tipo di cappello si chiama kepka, e ne esistono molte varietà. Otto triangoli è solo la variante siberiana. Il vero otto triangoli di un criminale audace e scaltro deve avere la visiera piegata bene, arrotondata, mai rotta, che fa uno spigolo a metà. In segno di disprezzo la si spacca al nemico, piegandola finché non si deforma.
Il mio otto triangoli me l’aveva regalato mio zio, era un cappello vecchio e mi piaceva proprio per questo. Ma avevo la testa piccola, e per farlo stare su dovevo mettermelo dietro le orecchie: la cosa mi preoccupava molto perché credevo che a furia di portarlo le mie orecchie si sarebbero allargate per sempre, però non avevo scelta: о dietro le orecchie о quello mi copriva metà della faccia. Un giorno mia mamma lo ha preso e lo ha adattato alla mia testa, e quello è stato proprio un bel giorno.
L’otto triangoli era un cappello cosi importante che raccontava storie e generava modi di dire. In gergo criminale la frase «portare otto triangoli» vuol dire compiere un crimine о partecipare alla gestione di affari criminali. La frase «tenere otto triangoli dritti» significa stare all’erta, essere preoccupati per qualche pericolo. «Mettere otto triangoli sulla nuca», invece, significa avere un comportamento aggressivo, prepararsi a un’aggressione. «Otto triangoli messo storto» vuol dire mostrare un comportamento tranquillo, rilassato. «Mettere otto triangoli sugli occhi» significa annunciare la necessità di sparire, nascondersi. «Riempire otto triangoli» significa prendere qualcosa in abbondanza.
Spesso io riempivo davvero il mio cappello, ad esempio quando noi ragazzi andavamo a trovare zia Marta, una donna che abitava da sola in riva al fiume ed era famosa per le sue marmellate. Le portavamo le mele che avevamo rubato dai giardini delle fattorie collettive dall’altra parte del fiume, e l’aiutavamo a pulirle, per fare la marmellata. Preparava i pirozki, piccoli biscotti che riempiva di marmellata. Ci mettevamo tutti in cerchio seduti su piccoli sgabelli nel cortile davanti a casa sua, con la porta della cucina spalancata, dove bolliva sempre qualcosa sul fuoco; pescavamo le mele dai sacchi, le sbucciavamo con i nostri coltelli e poi le buttavamo in un grosso pentolone con l’acqua dentro. Quando quello era pieno, lo portavamo in casa tutti quanti, usando due lunghe assi di legno che agganciavamo al pentolone come maniglie. Zia Marta ci voleva bene, ci dava da mangiare in abbondanza, tornavamo sempre a casa con le pance piene e con i pirozki tra le mani. Io i miei li mettevo nel cappello e li mangiavo mentre camminavo.
Al cappello a otto triangoli sono dedicate molte opere della tradizione criminale: proverbi, poesie, canzoni. Siccome io passavo tanto tempo con i vecchi criminali, ad ascoltarli cantare о recitare poesie, ne sapevo molte a memoria. Una canzone, la mia preferita, diceva cosi:
L’otto triangoli era al centro di tutto: lo si nominava di continuo, si scommetteva su di lui in varie situazioni. Spesso nei discorsi tra criminali, sia minorenni che adulti, capitava di sentire la frase: «Che il mio cappello a otto triangoli prenda fuoco sulla mia testa se non è vero quel che dico», о «Che il mio cappello voli via dalla mia testa», oppure la variante più macabra: «Che il mio cappello mi soffochi a morte».
Nella nostra società era vietato giurare, era considerata una specie di debolezza, un’offesa verso se stessi, perché chi giura insinua che quel che sta dicendo non è vero. Ma tra ragazzi, parlando, tante volte i giuramenti scappavano, e si giurava sul proprio cappello. Non si doveva mai giurare sulla madre, sui genitori e parenti in genere, su Dio e sui santi. Né sulla propria salute о ancor peggio sulla propria anima, perché veniva considerato come un «danneggiamento alla proprietà di Dio». Non restava che sfogarsi sul proprio cappello.