L’ultima persona fu fatta atterrare su una delle numerose isole dell’arcipelago che dal continente grande si estendeva ad arco fin oltre l’equatore, raggiungendo quasi il continente piccolo.
Altre isole costellavano il resto del pianeta-oceano. Erano piccolissime e assai distanziate fra loro. Interessanti per i biologi, naturalmente. Non c’è niente come un’isola per studiare l’evoluzione. Decidemmo, però, che non erano il posto dal quale avremmo dovuto iniziare.
Io andai sulla costa nordorientale del continente settentrionale. Ero equipaggiata con una giacca di tela di jeans e una leggera camicia di cotone. I miei stivali erano di plastica, resistenti e flessibili. Nell’avambraccio destro, sotto la pelle, avevo una fila di capsule che mi fornivano le vitamine che non erano disponibili su questo pianeta. Nel mio intestino c’erano cinque nuovi tipi di batteri, studiati per scomporre le proteine locali, trasformandole in aminoacidi che io potessi digerire.
Avevo uno zaino che conteneva una radio, una cassetta con l’attrezzatura medica, un poncho, un’altra camicia, esattamente come la prima, e un cambio di biancheria. Un grosso scomparto era pieno di gingilli. Questi erano fabbricati con materiali originari del pianeta. Non volevamo introdurre niente di alieno all’infuori di noi stessi.
Da ultimo, avevo un medaglione appeso a una catena di metallo grigio. Il medaglione era di metallo, piatto e scuro, con inseriti dei pezzi di vetro. Era un registratore audiovisivo, e quasi indistruttibile, così mi era stato detto. Qualunque cosa mi fosse successa, sarebbe sopravvissuto.
Sbarcai su una spiaggia, in prossimità di una fila di dune. Erano alte e spoglie, di un colore rosa arancione.
La barca che mi aveva trasportata virò e tornò verso l’aeroplano. Io mi diressi verso l’interno, arrampicandomi su una duna. Quando arrivai in cima, sentii un rombo e mi guardai attorno. L’aeroplano si stava muovendo sull’acqua. Si levarono spruzzi, poi del fumo. Era in aria. Le ali risplendevano alla luce del sole. L’aeroplano continuava a salire. Un minuto o due più tardi, era sparito.
Guardai il cielo deserto e tutt’a un tratto mi sentii molto sola. Allora incominciai a scendere lungo l’altro versante della duna.
Arrivata in fondo, trovai una pista. Non era una gran cosa. Stretta e sabbiosa, si allontanava serpeggiando dalle dune in direzione di un boschetto di alberi.
Erano state delle persone a tracciarla? Qualche forma di vita intelligente? Sapevamo che il pianeta era abitato. Le immagini fornite dai satelliti avevano mostrato villaggi e mandrie le cui migrazioni, stando a quanto ci avevano detto gli zoologi, erano troppo sistematiche per essere assolutamente naturali.
In ogni caso, mi trovavo di fronte a una pista. Decisi di seguirla. Questa mi condusse fra gli alberi e in mezzo ad alcune colline. Spesso le cime delle colline erano spoglie fatta eccezione per alcune macchie di una pianta che somigliava un po’ ad alta erba gialla. Le foglie, o i fili, erano rigide e avevano bordi seghettati. Non era un organismo dall’aspetto gradevole. Si trattava di un pianeta non ostile?
Negli avvallamenti fra le colline c’erano altri alberi. Erano piccoli e contorti, con piccole foglie scure. Dai tronchi spuntavano spine che erano lunghe e sottili, simili ad aghi. Un altro organismo dall’aspetto sgradevole. Incominciarono a venirmi in mente raccapriccianti storie di fantascienza. Perché avevo letto quella roba? Gli anziani della mia famiglia mi avevano messa in guardia: la fantascienza non portava a niente di buono.
Non serviva a niente innervosirsi o pensare al passato. Mi trovavo in un luogo del tutto nuovo e non avevo la minima idea di come fosse. Il mio lavoro, per il momento, consisteva nell’osservare. Successivamente, quando avessi avuto delle informazioni, avrei potuto pensare, ricordare e confrontare.
Dopo circa un chilometro giunsi in prossimità di un manufatto. Si trovava in un avvallamento al centro di una radura. I pendii tutt’attorno erano coperti di alberi. Mi fermai. La cosa era alta tre metri e fatta di pezzi di legno lunghi e stretti. Mi fece pensare a una palestra nella giungla oppure alle costruzioni rituali fabbricate dagli aborigeni della California meridionale. Avevo trascorso del tempo insieme a loro. In mezzo ai seni e sulla parte superiore delle braccia avevo le cicatrici della loro cerimonia di iniziazione. Non ero mai riuscita a capire perché mai mi ci fossi sottoposta fino in fondo. Ma conservavo le cicatrici. Me le ero guadagnate e, ogni volta che mi facevo una doccia, mi ricordavano di non lasciarmi coinvolgere troppo dai sistemi di valori di altri popoli.
Ispezionai la costruzione. Adesso notai che sotto c’erano i residui di un fuoco. Tre oggetti grigi erano appesi a una delle stecche più basse. Mi inginocchiai e li esaminai. Pesci o qualcosa di molto simile a pesci. Mi dondolai all’indietro sui talloni e mi sentii soddisfatta. Una rastrelliera per affumicare il pesce. A farla era stato un qualche essere intelligente. Ero la prima persona della Terra a vedere da vicino un manufatto alieno; su questo pianeta, in ogni caso, e per quel che ne sapevo.
Restai dov’ero alcuni minuti, osservando i pezzi di legno. Erano nodosi e contorti. Non c’era del legno migliore in quella zona? Mi guardai attorno. Tutti gli alberi nelle vicinanze avevano rami contorti. La struttura era tenuta insieme da strisce di fibra. Ne strappai via un pezzetto e lo arrotolai fra le dita. Al tatto sembrava una qualche specie di prodotto vegetale. Forse corteccia.
Qualcosa fece un rumore alle mie spalle. Mi alzai lentamente e mi girai, tenendo le mani tese all’infuori con le palme in avanti. Il gesto significava "Vedi? Non porto armi".
C’era una creatura lì ferma ai margini della radura, a forse venti metri di distanza. Un bipede. Era all’incirca della mia statura, tarchiato e coperto di pelame. Il pelo era di un bruno scuro, quasi nero. La creatura aveva due braccia, una testa e una faccia. Ero troppo lontana per distinguerne le fattezze. La creatura, uomo, donna o animale che fosse, indossava un gonnellino e in una mano teneva un coltello.
— Sono estremamente pacifica. — Tenevo le mani tese all’infuori e il tono della mia voce era sommesso e uniforme. — Non ho cattive intenzioni.
La creatura disse qualcosa che io, naturalmente, non riuscii a capire. Ma il tono non mi piaceva. Era forte e aveva un che di aspro.
— Non ho cattive intenzioni.
La creatura sollevò il coltello e fece un passo avanti. Io indietreggiai.
— Non possiamo discuterne? — Mi concentrai nel mantenere un tono di voce sommesso e conciliante. Evitavo di incontrare gli occhi della creatura. Fra molte specie, compresa la mia, uno sguardo diretto era una sfida.
La creatura fece un altro passo nella mia direzione. Decisi di andarmene.
— D’accordo. Hai vinto. Addio.
Attraversai arretrando la radura. La creatura mi seguì per un tratto, poi si fermò accanto alla rastrelliera. Quando arrivai al limitare della radura, mi fermai.
— Ne sei sicuro?
La creatura sollevò più in alto il coltello e sbraitò qualcosa. Mi voltai e mi allontanai a tutta velocità. Avevo la pelle della schiena che formicolava. Continuavo a immaginare la lama di un coltello che vi si conficcava.
Quando arrivai in cima alla successiva collina, mi voltai a guardare. La pista era deserta. Non c’era niente che mi seguisse.
Bene. E adesso?
Forse la creatura che avevo incontrato era un eremita. Senza dubbio dovevano esserci altri membri della specie che fossero amichevoli o curiosi.
Proseguii, andando sempre verso l’interno. Incominciavo a notare dei rumori: un sommesso ronzio che immaginai provenisse da pseudoinsetti nascosti fra gli alberi. Cose simili a uccelli svolazzavano di ramo in ramo. Quando erano fermi, emettevano mugolii o fischi. Mi resi conto, per la prima volta, che la giornata era mite e radiosa. Soffiava una leggera brezza. Nel cielo, che era di un intenso verdeazzurro, si muovevano alticumuli. L’aria odorava di acqua salmastra.