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In ogni caso, stesero altre pellicce. Altre persone si sedettero finché mi trovai circondata. L’aria era satura del loro odore di polvere e pelliccia.

Fu portato del cibo. Non ero sicura di che genere di roba si trattasse. Mangiai adagio e con circospezione e il meno possibile. Ma mangiai. Nella maggior parte delle società di cui ero a conoscenza, rifiutare il cibo era un gesto offensivo. Un antropologo doveva avere la digestione di una capra.

Le persone attorno a me incominciarono a conversare sommessamente. Spesso mi lanciavano occhiate. Solo il mio ospite restava in silenzio e continuava a porgermi nuovi piatti, osservandomi per assicurarsi che mangiassi.

Un piatto era costituito da pesce, ne ero quasi certa. Un altro mi ricordava dei pomodori verdi in salamoia. Un terzo aveva l’aspetto di kasha, ma non riuscivo a individuarne il gusto.

Le persone che mi stavano attorno ruttarono ed emisero dei suoni simili al tubare. Una serie di "uh" e "ya". Feci altrettanto.

Il pasto continuò. Cominciai a sentirmi stordita. Qualcosa che avevo ingerito stava facendomi un effetto narcotico. Le persone tutt’attorno si fecero più rumorose. Parecchi tesero le mani per toccarmi i vestiti, le mani o la faccia.

Qualcuno tirò fuori uno strumento simile a un flauto. Qualcun altro incominciò a battere fra loro due bastoncini cavi. Un battito e un sibilo, un battito e un sibilo, così faceva la musica. Mi appoggiai all’indietro su un gomito e rimasi a osservare il suonatore di flauto. Lui, o lei, indossava una tunica gialla e un paio di alti braccialetti di rame che mandavano bagliori con l’ondeggiare del suonatore, tenendo il tempo con la musica. Non avevo difficoltà a sentirne il ritmo; era quasi sempre regolare: un cuore con una leggera aritmia.

La musica cessò. Il mio ospite si alzò in piedi e io mi guardai attorno.

C’era un nuovo individuo nella stanza, appena dentro l’uscio aperto. Al pari del mio ospite, anche questo portava una veste lunga. Un segno di importanza? O di età? Sesso o occupazione? Portava un cappello, il primo che mi capitasse di vedere: alto e appuntito, e ornato di conchiglie.

Mi alzai in piedi, ondeggiando un poco. Mi ci volle un momento per mettere a fuoco le immagini.

Il nuovo arrivato aveva un’aria torva. Vidi una fonte di problemi nel portamento rigido ed eretto, nelle spalle tenute alte e arretrate, negli occhi strizzati, quasi chiusi, che mi fissavano in modo diretto. L’uomo, o la donna, portava un bastone in cima al quale erano appese delle penne che ondeggiavano, ma non per il vento. L’individuo tremava. Non riuscivo a capire se il movimento fosse intenzionale.

La persona disse qualcosa. Il suono delle sue parole era incollerito.

Il mio ospite rispose seccamente.

Le persone attorno a me incominciarono ad alzarsi e a indietreggiare. Era una qualche specie di conflitto di poteri ed ebbi la sensazione di trovarmici al centro.

L’individuo con il bastone disse ancora qualcosa. Il mio ospite serrò la mano a pugno e l’agitò, poi indicò la porta. Questo era abbastanza chiaro. "Tu, tal dei tali, vattene!"

L’individuo con il bastone lanciò un’occhiata astiosa e se ne andò. Gli altri lo seguirono alla spicciolata finché rimasero solo in tre: il mio ospite, il suonatore di flauto e una persona dal pelame bruno rossiccio che luccicava come rame alla luce del fuoco.

— Uh! — disse il mio ospite.

Gli altri fecero dei gesti che probabilmente significavano la loro approvazione.

Mi sentivo stanca e stordita. Avevo preso troppo di qualcosa, con molta probabilità del liquido. Dovevo andare cauta nel berlo in futuro. Mi strofinai il viso.

Il mio ospite mi guardò, poi gesticolò. Raccolsi il mio zaino. Lui, o lei, mi condusse fino a un’estremità della stanza, dove c’era un mucchio di pellicce. Il mio ospite gesticolò di nuovo. Mi coricai.

— È stata una bella festa. Buonanotte.

Il mio ospite se ne andò. Io sistemai il mio zaino in modo che si trovasse fra me e la parete e mi misi a dormire.

Mi destai con un mal di testa e una sensazione di disorientamento, mi drizzai a sedere e mi guardai attorno, e scoprii che mi trovavo in un vasto spazio interno. La luce penetrava da un’apertura sopra di me e da una porta aperta. Era gialla, il colore della luce del sole a pomeriggio inoltrato. Ma ero quasi certa che fosse mattina.

Una voce parlò poco lontano. Guardai in direzione del suono. Era la persona anziana, il mio ospite. Indossava una lunga veste color arancione scuro e un’alta cintura fatta di rame. In una mano teneva un bastone di legno decorato con pezzetti di conchiglia. L’altra mano era tesa verso di me, con il palmo all’insù. Giudicai che si trattasse di un saluto. A quel punto mi ero ormai ricordata dove mi trovavo in quel momento.

L’anziano individuo venne più vicino e si sedette. Parlò di nuovo, in tono sommesso e cortese.

Io mi misi una mano sul petto e dissi il mio nome. — Lixia.

Dopo un momento, il mio ospite disse: — Li-sa — e puntò il dito verso di me.

— Lixia — ripetei.

Il mio ospite si portò la mano ossuta al petto. — Nahusai.

Lo additai a mia volta. — Nahusai.

La risposta fu un gesto, un rapido movimento della mano. Il mio intuito mi disse che significava "sì".

Bene, allora. Conoscevo una parola. Si riferiva al mio ospite, ma che cosa significava? Era un nome, un titolo o un termine generico come "essere umano"?

Col tempo l’avrei capito.

Entrò una persona: il suonatore di flauto. Indossava la stessa tunica della sera precedente e gli stessi braccialetti di rame.

— Yohai — disse il mio ospite e puntò il dito.

Il suonatore di flauto ci guardò.

Era un nome. Ne ero quasi certa.

Yohai preparò la colazione: una poltiglia di un bruno grigiastro. Aveva un gusto aspro. Ne appresi il nome: atsua. Finito di mangiare, Yohai andò verso l’uscio e fece un gesto. Io presi il mio zaino, seguendolo attorno alla casa. C’era uno spiazzo aperto sul retro, dove cresceva della vegetazione. Era in gran parte azzurrognola con fiori bianchi o gialli.

Che fosse un giardino? Pensai di no. Le piante crescevano in modo disordinato e avevano un aspetto selvatico. Era uno spiazzo invaso dalle erbacce.

Al centro di quel terreno aperto sorgeva una costruzione delle dimensioni più o meno di uno sgabuzzino. Non appena vi arrivai vicino, mi resi conto di che cosa fosse. Una latrina. Puzzava tremendamente. Ci pensai su per un po’, quindi me ne servii. Dopo chiesi come lo chiamassero.

— Hana - rispose Yohai. O forse hna. Non ero sicura di aver sentito una vocale nella prima sillaba.

Yohai gesticolò di nuovo e io lo seguii. Attraversammo il villaggio. Le strade erano piene di bambini. Incontrammo solo alcuni adulti. I bambini smettevano di giocare e mi fissavano. Gli adulti facevano finta che non ci fossi. Avevo la sensazione che Yohai fosse a disagio e mi sentivo un po’ a disagio anch’io. Ma la giornata era bella, mite e radiosa. Soffiava un leggero vento incostante che portava il profumo della foresta e quello molto debole dell’oceano. Non era una giornata in cui stare in ansia, e non lo feci.

Arrivammo alla fine del villaggio. Lì c’erano degli orti: appezzamenti rettangolari lunghi e stretti che si estendevano fra le case e la foresta. Ciascuno di questi era recintato da uno steccato di legno, abbastanza basso da poter vedere al di sopra. All’interno degli steccati c’erano persone che lavoravano, una o due in ogni orto. Si muovevano fra file di piante. Alcune strappavano le erbacce. Altre raccoglievano. Altre ancora versavano acqua da recipienti che somigliavano ad anfore.

Ecco la risposta a uno dei miei interrogativi. Quella società era agricola, almeno in una certa misura.