Entrammo in un orto. A un’estremità c’era un albero. Yohai mi condusse alla sua ombra e indicò il terreno. Mi sedetti.
Il mio compagno, o compagna che fosse, incominciò a lavorare mentre io mi guardavo attorno. In lontananza, verso est, c’erano cumuli frastagliati nel cielo. Un temporale per quella sera. Nell’orto accanto c’era un bimbo, piccolo e peloso, seduto sotto una pianta. Mentre lo osservavo, sollevò la manina cercando di afferrare una delle foglie. Ma la foglia era troppo in alto.
A poca distanza, un adulto versava acqua. Svuotò il recipiente, poi si sedette, si rassettò e si girò. Sotto la sua tunica scorsi il rigonfiamento dei seni. Due seni. Era la prima persona che vedevo che non avesse il torace piatto. Era chiaramente una madre che allattava.
La donna mi guardò, poi fece un gesto: un fendente verticale. Ebbi la sensazione che fosse ostile, così distolsi lo sguardo.
A mezzogiorno Yohai mi raggiunse. Sedemmo insieme e mangiammo del pane. Il pane era piatto e dal gusto aspro. Più tardi Yohai mi insegnò alcune parole: pane, cielo, albero.
Tornammo verso casa. Il mio ospite era lì. Yohai se ne andò. Mi sedetti e imparai altre parole. Nel tardo pomeriggio sentii il brontolio del tuono. Incominciò a piovere; dapprima una pioggerellina, poi un vero acquazzone. Io e il mio ospite cenammo. Era la stessa roba della colazione: atsua. Poltiglia grigia. Non mangiai molto.
Più tardi restammo seduti senza parlare. Il sole era tramontato. La pioggia luccicava, illuminata dalla luce del fuoco: una cortina argentea contro la porta. Mi appoggiai a un palo. Il mio ospite se ne stava chino accanto al fuoco, raggomitolato nella veste arancione. Ogni tanto muoveva una mano. Rigirava un braccialetto o picchiettava sul terreno. Era una persona con un problema grave, e avevo la sensazione che fossi io il problema. Yohai mi aveva dato l’impressione di un’audacia nervosa, di qualcuno che ritenesse doveroso fare una cosa che non desiderava fare. "Vedete che cosa abbiamo qui. Vedete il nostro ospite. Vedete la persona di cui non ci vergognamo." Quello era stato il messaggio che intendeva trasmettere quando mi aveva condotta nell’orto. Che cosa stava succedendo esattamente? Decisi di non fare congetture. Le informazioni che avevo erano troppo scarse e non potevo essere sicura di comprendere qualcosa di quel popolo.
Il giorno seguente ci fu ancora pioggia. Io e il mio ospite lavorammo sulla terminologia: oggetti casalinghi per lo più, e alcuni verbi di uso comune. Nel pomeriggio Yohai tirò giù un piccolo telaio che stava appeso alla parete e incominciò a tessere una striscia di stoffa. Il filato era bianco e blu. Io osservavo. Yohai lavorava rapidamente. Ben presso iniziai a distinguere un disegno; era geometrico, pieno di angoli acuti. Secondo me, aveva qualcosa di ostile ed era di gran lunga troppo intricato. Che significato poteva avere? Quella cultura era forse bizantina? O ero io a soffrire di paranoia?
Mi alzai e mi misi a fare degli esercizi di yoga. Il mio ospite mi guardò, sgranando gli occhi.
Mi interruppi. — Non è niente di dannoso o maligno — dissi in tono cordiale. — Lo faccio per impedire che mi faccia male la schiena e per mantenere la mente abbastanza serena.
Continuai i miei esercizi. Il mio ospite stava a guardare. La pioggia diminuì. Ormai non era che una pioggerellina.
— Scusatemi. — Presi il mio zaino e andai alla latrina. Puzzava come sempre. Entrai e mi sedetti, poi tirai fuori la mia radio e chiamai la nave.
— Sì? — fece la radio. La voce era profonda e un po’ arrochita. Stavo parlando con il dottor Edward Antoine Turbine di Vento, autore di opere quali La società indigena americana nella riserva e Modelli di sopravvivenza nel tardo Ventesimo Secolo, già eminente professore presso l’Università di Duluth — si era dimesso dalla carica quando aveva lasciato la Terra — e da parecchi anni mio collega presso il Dipartimento di Studi Interculturali.
— Sono Lixia — gli dissi. — Chiamo da un gabinetto esterno, così sarò sbrigativa.
Eddie rise.
— Mi serviva un posto riservato.
— Okay — disse Eddie.
Appoggiai la radio sulle ginocchia, poi tolsi il medaglione dalla catena e lo infilai in una fessura nella radio.
Il piccolo computer posto nel medaglione comunicò con il computer appena poco più grande posto nella radio, e questo a sua volta comunicò con un computer a bordo della nave. Ci volle soltanto un minuto. La radio emise un bip e io tirai fuori il medaglione. Tutto quello che il medaglione aveva registrato, tutto quello cioè che mi era successo negli ultimi due giorni, adesso si trovava nel sistema informativo sulla nave.
Directory: Prima spedizione interstellare
Subdirectory: Sigma Draconis II
Sub-subdirectory: Rapporti da luogo operazioni — Scienze sociali
Nome file: Li Lixia
La radio chiese: — C’è dell’altro?
— No.
— Okay. Altri tre si sono messi in contatto. Nessun problema finora. Ma sii prudente e chiama il più presto possibile. Dovrei avere qualche informazione effettiva fra un paio di giorni.
Spensi la radio, la rimisi nello zaino e uscii. Aveva ripreso a piovere forte e dovetti correre fino alla casa.
L’indomani il tempo era sereno. Io e Yohai ci recammo nell’orto. Il terreno era ancora bagnato. Gocce d’acqua luccicavano sulle foglie. Yohai mi insegnò a strappare le erbacce. Lavorammo per tutta la mattinata. A mezzogiorno ci riposammo sotto l’albero. Negli altri orti, le persone si muovevano qua e là, parlando fra di loro, ma nessuno venne a farci visita. Interessante. Avevo di nuovo la sensazione che venisse compiuto un atto doveroso e che Yohai non desiderasse compierlo. Addentai un ortaggio giallo; era succoso e dal gusto dolceamaro.
Alla sera sedetti insieme a Nahusai. Yohai andò fuori, ma non seppi dove. Imparai altri verbi e parecchie preposizioni: il tormento di ogni lingua, ma tenevano insieme e rendevano coerenti tutte le informazioni. A. Da. In. Di. Fra.
Il giorno seguente era il quinto che trascorrevo su quel pianeta. Il cielo era di nuovo limpido. Lavorai con Yohai nell’orto e imparai i nomi di diverse piante. Yohai mi spiegò che era una donna; non una madre, però. E mentre me lo diceva, sembrava infelice.
— Nahusai? — chiesi.
Lei fece il gesto che significava "sì". — Madre — disse, poi si mise la mano sul petto. — Madre me.
Ah, bene. Un rapporto di parentela. Il primo che mi capitava. Incominciai a pensare che stavo arrivando a qualcosa.
L’indomani Yohai mi portò al fiume, che scorreva fra gli orti e la foresta. In quel periodo dell’anno, la piena estate, l’acqua era bassa e scorreva attorno a pietre gialle. Yohai entrò e rivoltò un sasso, poi afferrò qualcosa. — Tsa!
Mi porse quella cosa. Era lunga forse dieci centimetri, verde e dura, con otto zampe. La tenni con circospezione. Le zampe si muovevano. A una estremità c’erano due lunghi peduncoli. Erano occhi? Oppure antenne? Guizzavano avanti e indietro.
— Noi mangiamo — disse Yohai.
— Oh, davvero? — Feci il gesto che significava incertezza o confusione.
— Tu vedi. — Yohai afferrò la creatura e la gettò in una pentola. — Tu qui. — Mi fece cenno di raggiungerla.
Mi tolsi gli stivali, mi arrotolai i pantaloni ed entrai nell’acqua. Lei aveva preso un’altra creatura e anche questa finì nella pentola. — Tu.
Infilai le mani nell’acqua e rigirai un sasso. Qualcosa mi scivolò fra le dita. Cercai di afferrarlo, ma me lo lasciai sfuggire.
— Dannazione. — Trovai un altro sasso e provai di nuovo.
Passammo tutta la mattina nel fiume. Yohai prese una ventina di quegli animali, io solo due.
Alla fine lei uscì dal fiume e restò a fissarmi con aria perplessa.
— In che cosa sono brava? — dissi in inglese. — Domanda interessante. Sono molto brava a imparare le lingue e abbastanza brava a capire come pensano gli altri. Anche se non sempre riesco a spiegarmi come faccio a sapere quello che so. È di qualche utilità?