— Quella la conosco — disse Nia. — L’ho fatta io. — Si guardò le mani. — È da troppo tempo che viaggio. Ho bisogno di avere di nuovo degli utensili.
Le altre insegne erano animali fatti di bronzo o di ottone: un cornacurve, un assassino-delle-pianure, un bipede.
— Le altre le ha fatte la mia madre di nome — disse Hua. — Sono molto vecchie.
La maestra di Nia. Adesso me ne ricordavo. — L’hai conosciuta? — domandai alla ragazzina.
Hua assunse un’aria scandalizzata. — No! Mai! Come puoi fare una domanda simile? Che cosa intendi dire con questo?
— Questa persona viene da molto lontano — spiegò Nia. — La prima volta che l’ho incontrata, non conosceva il linguaggio che stiamo parlando. A volte penso che non lo conosca ancora. Non preoccuparti troppo delle cose che dice.
Hua fece il gesto del tacito consenso, ma sembrava preoccupata.
Una donna uscì dalla tenda. Era alta e magra e indossava una veste lunga color arancione. Il suo pelame era di un bruno scuro screziato di grigio, anche se non mi sembrò che fosse vecchia. Aveva indosso almeno una dozzina di collane fatte in oro, argento e ambra. Braccialetti le coprivano le braccia dal polso al gomito. Come le collane, erano una mescolanza di oro, argento rame e avorio. Ce n’erano perfino un paio di legno intagliato. Aveva una borchia d’oro nel fianco del naso basso, piatto e peloso.
Ci osservò, poi si rivolse a Nia. — Non riesci mai a comportarti in modo accettabile? Perché sei tornata qui? E dove hai scovato una persona come quella?
— Questa è la mia madre adottiva — spiegò Hua.
— Il suo nome è Angai — disse Nia. Fece un cenno della mano nella mia direzione. — Questa persona si chiama Li-sa. L’ho incontrata nell’est, nel villaggio del Popolo del Rame della Foresta. Era là che vivevo.
— Questa non è una Persona del Rame — ribatté Angai.
Nia fece il gesto dell’assenso. — Non so da dove venga. Da molto, molto lontano, mi ha detto. Ma l’ho incontrata nel villaggio del Popolo del Rame, nella casa della loro sciamana, Nahusai.
Alle mie spalle la gente mormorò. Un neonato si mise a piangere.
— Ci sono altre persone senza pelo a valle del villaggio su due imbarcazioni. Chiedono il permesso di venire quassù.
Angai si accigliò — Che cosa hai raccontato loro di noi, Nia? Hai mentito? Noi accogliamo sempre gli ospiti! Non c’è ragione perché aspettino giù a valle. — Fece una pausa. — A meno che non siano ammalati. È questo che è successo al loro pelo?
— Quattro di loro sono uomini.
— Sediamoci — disse Angai. — Qui sotto il lembo della tenda. Non c’è motivo di stare scomode mentre parliamo.
Ubbidimmo. Anche Hua. Angai le rivolse un’occhiata severa. — Non sono certa che questo sia un argomento per bambini.
— L’intero villaggio è qui. Stanno ascoltando tutti.
Angai fece il gesto che significava "molto bene". — Ma sta’ in silenzio! Fa’ attenzione! Impara quello che fa una sciamana!
Hua fece il gesto dell’assenso.
— Ora. — Angai guardò Nia. — Spiegami che cos’è tutta questa faccenda.
— Queste persone sono diverse. Non si tratta soltanto della mancanza di pelo. Guarda i suoi occhi. — Puntò il dito verso di me. — Sono bianchi e marroni come il terreno all’inizio della primavera, quando la neve incomincia a sciogliersi. Chi ha mai visto occhi come questi? Guarda le sue mani. Ha due dita in più, e non sono deformi. Tutta la sua gente ha due dita in più. Amica della mia infanzia, tira un respiro! Hai mai sentito una persona che odori così prima d’ora?
Angai annusò. — No.
Nia si protese in avanti. — Lei non è una persona nel modo in cui lo sei tu, Angai.
Aprii la bocca per protestare, poi la richiusi. Nia era tutt’altro che una stupida. Doveva avere un motivo per quello che faceva.
— Loro hanno utensili diversi dai nostri. La loro lingua ha il suono di un animale che soffia e cinguetta.
"Però…" Nia fece una pausa. "Hanno utensili e hanno una lingua. Non sono animali. E non sono neppure spiriti. Non credo che siano demoni. Sono persone assolutamente strane e sconosciute."
Angai fece il gesto che significava "questo è possibile".
— Fra queste persone gli uomini non sono solitari, ma vivono insieme alle donne.
— Aiya! - esclamò una donna. Altre gridarono: — Uh!
Angai fece il gesto che esigeva silenzio. — Continua.
— È per questo motivo che stanno aspettando. Sanno che noi abbiamo usanze diverse. Non vogliono far arrabbiare il Popolo del Ferro. Non vogliono mostrare mancanza di rispetto né essere disonesti.
— Ma vogliono venire nel villaggio — disse Angai.
Nia mi rivolse un’occhiata.
— Sì — dissi. — Loro… noi… abbiamo una difficoltà. Una controversia che non siamo in grado di appianare. Vogliamo il vostro consiglio, il consiglio del tuo popolo.
— Non c’è da stupirsi che bisticcino — saltò su a dire una donna. — Uomini e donne insieme! Che perversione!
Un’altra donna aggiunse: — Salvo che nel periodo dell’accoppiamento.
— I cornacurve si accoppiano in autunno — disse Angai. — E ci sono animali che hanno due o tre figliate in un’estate. Siete così? È questo il vostro periodo dell’accoppiamento?
Esitai.
Nia disse: — Ho osservato con attenzione queste persone e le ho ascoltate. È mia opinione che siano sempre pronte ad accoppiarsi.
Dal pubblico si levò un’altra serie di esclamazioni. Angai fece il gesto che esigeva silenzio. Restammo tutti in attesa. Lei aggrottò la fronte. — Sei sicura che queste siano persone, Nia?
— Sei tu la sciamana. Questa ti sembra uno spirito? Un demonio? O uno spettro?
Angai mi toccò il braccio. — È solida. Siamo in pieno giorno. Non può essere uno spettro.
— E se fosse un demonio? — chiese una delle donne del villaggio. — Loro sono solidi. Possono uscire alla luce del sole.
Angai mi fissò. — Ho visto demoni nei miei sogni. I loro occhi ardono come fuoco. Le loro mani e i loro piedi hanno lunghi artigli ricurvi. Per il resto sono simili alle persone. Non ho mai sentito parlare di un demonio senza pelo. — Fece una pausa. — Sei sicura che non siano spiriti, Nia?
— Gli spiriti hanno molti travestimenti — disse Nia. — Perfino una donna esperta può non riuscire a scoprirli. Ma ho viaggiato con queste persone per tre cicli della grande luna. Non hanno mai cambiato forma. Non hanno mai cambiato dimensioni. Mangiano. Dormono. Producono sterco e urina. Il loro sterco e la loro urina sono comuni, sebbene non emanino esattamente lo stesso odore dei nostri. Anche quando sono adirati, anche quando sembrano essere in pericolo, non fanno niente di spiritico.
Angai fece un gesto che non conoscevo. — Non sono animali. Non sono spiriti. Non sono spettri né demoni. Dunque devono essere persone. Ci hanno chiesto aiuto. È mia opinione che dovremmo aiutarli. Hanno chiesto di venire nel nostro villaggio. È mia opinione che dovremmo dar loro il permesso.
Una donna parlò ad alta voce, ma non nel linguaggio dei doni.
Angai alzò una mano. — Loro non sono come noi. Non possiamo giudicarli nello stesso modo in cui giudichiamo noi stessi.
Parecchie donne parlarono nella lingua tribale. Mi voltai a guardare la folla.
Il sole ormai era basso. Raggi di luce, quasi orizzontali, risplendevano fra le tende, illuminando lo spiazzo, la vegetazione e le persone: robuste matrone, vecchie curve, ragazze flessuose, numerosi bambini. Le donne adulte sbraitavano e gesticolavano. I loro gioielli scintillavano.
Conoscevo la maggior parte dei gesti. "Sì." "No." "Hai torto o sei pazza." "Siamo d’accordo." "L’accordo è assolutamente impossibile."
Tornai a guardare Angai. Lei osservava e ascoltava, il volto inespressivo.
— Che cosa sta succedendo? — domandai a Nia.
— Alcune di loro sono d’accordo con Angai. Altre no. Grideranno tutte finché non si saranno stancate.
Mi voltai a guardare la folla. La discussione proseguì. I bambini, quelli più grandicelli, se ne andarono alla chetichella, evidentemente annoiati. I bambini più piccoli incominciarono a piangere. Le loro madri li presero in braccio, li abbracciarono e li cullarono.
Le altre donne continuarono la discussione, ma con meno impeto a questo punto. Le voci si erano fatte più sommesse, i gesti meno ampi.
La luce abbandonò gradualmente lo spiazo. Solo le sommità delle tende erano illuminate, e le punte delle insegne di metallo. L’oro, l’argento e il bronzo luccicavano contro il cielo, che era limpido e di un intenso verdeazzurro.
Alla fine regnò il silenzio rotto solo dal piagnucolio dei neonati e dalle voci acute e chiare di un gruppetto di bambini che avevano dato inizio a un nuovo gioco.
— Hai! Hai! Ah-tsa-hai!
Le donne guardavano Angai, che parlò con voce alta e ferma.
Le donne risposero con gesti di dubbiosa approvazione.
Angai mi guardò. — La giornata è quasi finita. È una cattiva idea incominciare qualcosa di importante al buio. Pertanto, ti chiedo di fare ritorno presso le vostre barche. Torna domattina con tutti. Tutta la tua gente. Ascolteremo il vostro problema.
Feci il gesto della gratitudine e mi alzai in piedi.
— Tu, Nia. — Angai guardò la mia compagna. — Va’ con la persona senza pelo. La gente qui ti conosce da troppo tempo. Dimenticherà che ora sei una straniera e non ti tratterà con la cortesia dovuta a una viaggiatrice.
Nia fece il gesto dell’assenso.
Hua disse: — Voglio andare con loro.
Angai si accigliò.
— No — ribatté Nia. — Non voglio che la gente dica che sei uguale a me.
— Nia ha ragione — dichiarò Angai. Guardò la figlia adottiva. — Domani vedrai le persone senza pelo. Questa notte resterai qui.
Hua fece il gesto della riluttante acquiescenza. La folla si divise. Nia e io vi passammo in mezzo.
— Aiya! - esclamò Nia. — Che giornata!
Scendemmo lungo la scogliera. Le luci sulla prima imbarcazione erano state accese. Tenui e regolari, illuminavano il ponte scoperto sulla parte posteriore della barca. L’oracolo se ne stava seduto lì, rosicchiando la zampa anteriore di un bipede. Alzò lo sguardo quando salimmo a bordo. — Che cosa è successo? Ti sei procurata del cibo?
— No — rispose Nia.
— È meglio che ti sbrighi. È finito tutto a parte questa e il cibo della gente di Lixia.
— Non mi hai lasciato niente?
— Credevo che avresti mangiato al villaggio.
— Aiya!
Lui le porse l’osso.
Nia fece il gesto dell’espansiva gratitudine. Aprii la porta della cabina. Dentro c’erano Agopian e la Ivanova che giocavano a scacchi.
Agopian alzò lo sguardo. — Siete tornate?
— Uuh. È andato tutto bene. Possiamo recarci al villaggio domani. Tutti quanti.
— Congratulazioni. — La Ivanova rovesciò il proprio re. — Mi arrendo. Non posso fare niente con i miei pedoni.
Agopian sorrise. — Uno dei nostri pedoni è diventato un socialista rivoluzionario e ha convinto gli altri a costituire un soviet, il che significa, naturalmente, che al bianco non sono rimasti comuni soldati.
— E il rosso vince — disse la Ivanova in tono cupo.
— Di che cosa state parlando?
— Scacchi brechtiani. — Agopian incominciò a mettere via i pezzi. — Sono stati chiamati così in onore del drammaturgo tedesco Bertolt Brecht, che sosteneva che il normale gioco degli scacchi fosse noioso. I pezzi dovrebbero cambiare a seconda di dove si trovano sulla scacchiera e del tempo da cui sono lì. È stato un pazzoide di nome Robik a inventare realmente il gioco agli inizi del Ventiduesimo Secolo.
— È un gioco assolutamente irritante — osservò la Ivanova.
— Carlo Marx odiava perdere agli scacchi. La cosa non infastidiva Lenin, almeno secondo Gorki. — Agopian ripiegò la scacchiera, poi la ripiegò una seconda volta. — Lenin era interessato al modo in cui perdeva e questo gli impediva di adirarsi per il fatto di avere perso. Sosteneva che gli scacchi gli insegnavano parecchio sulla strategia e la tattica. Ma dovette rinunciarvi. Interferiva con la sua attività rivoluzionaria.
— Dove sono tutti gli altri? — chiesi.
— Sull’altra barca. Il signor Fang sta preparando la cena. Iguana con peperoni rossi e cipolle verdi. Noi volevamo finire la nostra partita.
— Anche se non so perché — disse la Ivanova. Si alzò e si stiracchiò.
— Pensavi che avresti vinto, compagna, quando il mio commissario ha incominciato a manifestare preoccupanti tendenze revisioniste.
— Commissario? — dissi.
Agopian sorrise. — Robik voleva sbarazzarsi degli elementi feudali nel gioco degli scacchi. Ha trasformati i cavalli in commissari.
— Non dirmi altro.
— Non lo farò. Vieni a cena?
— No.
— C’è della birra nella cambusa e il necessario per fare dei sandwich. — Uscì sul ponte.
La Ivanova lo seguì, indugiando sulla porta. — Hai fatto un ottimo lavoro, Lixia.
Feci il gesto che indicava l’umile accettazione di una lode.
Se ne andò. Presi una birra e la bevvi, poi mi preparai un sandwich. Me lo portai fuori sul ponte insieme a un’altra birra.
Nia e l’oracolo erano ancora lì. — Avete avuto abbastanza da mangiare?
— Io sì — rispose l’oracolo. — Ma Nia sarà affamata quando si sveglierà.
Nia fece il gesto che significava "niente di grave".
Mi sedetti di fronte ai due nativi. — Nia, perché tua figlia era turbata quando le ho chiesto se aveva conosciuto la vecchia Hua?
— Ahi! — esclamò l’oracolo. — Le hai chiesto quello?
— Sì. Che cosa c’è di male in questa domanda?
— Nessuno dà mai a una bambina il nome di una donna ancora viva — mi spiegò Nia. — Se una donna incontra la propria madre di nome, significa che incontra un fantasma.
Dissi: — Uh! — e bevvi ancora un po’ di birra, poi chiesi: — Questo vale anche per gli uomini?
— No — rispose l’oracolo.
Nia aggiunse: — Ai figli maschi vengono dati nomi di uomini che hanno lasciato il villaggio. Di solito il nome di un fratello della madre. A mio figlio è stato messo il nome di mio fratello Anasu. Per quanto ne so, è ancora vivo. — Esitò. — Lo spero. — Guardò l’osso che teneva in mano. Era completamente ripulito. Non rimaneva nemmeno un frammento di carne. — Quando mio figlio lascerà il villaggio, potrà anche incontrare Anasu. Non sarà niente di particolarmente spaventoso.
— A meno che non cerchino di rivendicare lo stesso territorio — disse l’oracolo.
— È assai improbabile. — Nia gettò a terra l’osso, che sbatté sul ponte con un rumore secco. — Mi prenderò una coperta e dormirò lassù. — Indicò la prua dell’imbarcazione.
— Va bene — dissi.
Si alzò rigidamente, come se si fosse affaticata molto con qualche lavoro fisico. Be’, un giorno anch’io avrei scoperto che effetto faceva tornare a casa.
Finii la birra, andai nella cabina e aprii un letto.
— Mi serve una coperta — disse l’oracolo.
Ne presi una per lui. Se la portò fuori. Mi svestii e mi coricai. Restai per un po’ di tempo a pensare alla giornata: le tende e i carri, le persone, in particolare i bambini. Che cosa si doveva provare ad avere una figlia? Allungai la mano verso il pulsante sulla parete sopra di me, lo schiacciai e la luce si spense.
Udii la voce di Derek: — Non sei venuta a riferire ieri sera. Siamo rimasti delusi, Lixia.