Quando tornai, la cabina era stata riordinata. I letti erano di nuovo divani. Le sedie e i tavoli erano stati aperti. Derek e Agopian stavano disponendo dei piatti.
Agopian mi lanciò un’occhiata. — Stiamo servendo una colazione all’americana su questa barca. Il solo cibo decente che ho mai mangiato in America era servito a colazione. Anche se l’hamburger ha un certo je ne sais quoi. Così come gli hot dog di Coney Island. Yunqui sta servendo una colazione cinese sull’altra barca. Ho sentito dire che è una pessima cuoca.
— Gli armeni sono tutti cibodipendenti?
— Questa è una domanda razzista. — Finì di apparecchiare la tavola. — Ci piace mangiare. Molti di noi sono morti di fame nel corso dei secoli.
— Forse vorrai andare fuori — mi disse Derek.
— Perché?
— Il figlio di Nia è qui.
Uscii sul ponte. Nia e l’oracolo erano seduti attorno a una pentola di metallo piena di stufato. Mangiavano, tirando fuori grossi pezzi di carne con le dita, e indossavano indumenti nuovi. Niente di straordinario. Nia aveva indosso una tunica verde scuro, priva di ornamenti a parte un’unica striscia di ricami gialli attorno al collo. L’oracolo portava un gonnellino arancione rossiccio totalmente privo di ricami.
— Dov’è Anasu? — chiesi.
Lei me lo indicò col dito.
Il ragazzo era seduto sul parapetto. Era alto quanto l’oracolo, ma era meno robusto di aspetto e aveva la pelliccia di un bruno molto scuro. I suoi occhi erano grigi. Non avevo mai visto quel colore in un nativo prima di allora.
Il suo gonnellino era grigioazzurro. Portava stivali fatti, ne ero quasi certa, per cavalcare, non per camminare. Erano alti fino al ginocchio, di un cuoio grigio sottile e flessibile che faceva borse alle caviglie. I talloni erano guarniti con borchie d’argento. La cintura aveva una fibbia d’argento. Infine portava quattro sottili braccialetti d’argento, due su ogni polso.
Nia disse: — È arrivato ieri sera, quando tutti dormivano già. Mi ha svegliata. Gli ho detto che ero affamata. È andato a procurarsi del cibo.
L’oracolo fece il gesto della gratitudine, senza smettere di masticare.
Il ragazzo disse: — Ieri ero via, fuori sulla pianura, a caccia. Quando sono tornato, Hua mi ha detto che nostra madre era tornata. Angai mi ha detto di lasciarla in pace. Non le ho dato ascolto. Sarò un uomo, se non quest’inverno, l’inverno successivo. Non sono le voci delle donne che mantengono in vita un uomo sulla pianura. È la propria voce. Quella che sente nella mente quando la sua lingua tace.
L’oracolo fece il gesto dell’approvazione.
— Ci ha portato anche dei vestiti — disse Nia.
— Ho visto che aspetto aveva mia madre. Trasandato! E straniero! Non capisco proprio che cosa stia succedendo. E voi chi siete, in ogni caso? Perché avete bisogno dell’aiuto della nostra sciamana?
Aprii la bocca per spiegare. Il ragazzo sollevò una mano.
— Ma so che Nia c’entra qualcosa e mi sembra che dovrebbe essere vestita con abiti decenti.
— Quanti anni hai? — gli chiesi.
— Tredici. Tutti dicono che sono cresciuto in fretta. Non so se sia una buona cosa. La gente si aspetta che lasci presto il villaggio. Credo che non mi dispiaccia.
— Non deve dispiacerti — disse Nia. — Tuo padre si è messo nei pasticci perché non voleva lasciare il villaggio.
— Ne ho sentito parlare. — Il ragazzo s’interruppe e volse il capo, poi saltò giù dal parapetto.
Ci fu un movimento fra il fogliame. Eddie salì sull’imbarcazione. — Buongiorno, Lixia. — Rivolse un’occhiata al ragazzo. — Il figlio di Nia?
Feci il gesto dell’affermazione.
— Presentami.
Lo feci.
Il ragazzo lo scrutò dalla testa ai piedi. — Questo è un uomo?
— Sì.
— È un uomo grande e grosso — commentò il ragazzo.
Eddie indossava jeans, una camicia color turchese e un gilè ricoperto di guarnizioni di perline. Il gilè era Anishinabe: un disegno ben delineato di fiori dai vivaci colori. Le perline erano minuscole, di vetro. Luccicavano alla luce del primo mattino. I capelli erano legati in due trecce. La fibbia della cintura era in oro e turchese. Naturalmente era un uomo grande e grosso. Feci il gesto dell’affermazione.
— C’è la probabilità che affronti qualcuno? — s’informò il ragazzo.
— No.
Il ragazzo fece il gesto che significava "bene".
Nia si alzò. — Non l’hai sentito dire al villaggio? Queste persone non sono come nessun altro popolo.
— L’ho sentito dire — rispose il ragazzo.
Agopian si sporse dall’uscio della cabina. — La colazione è pronta.
— Questo è un altro maschio — disse Nia.
— Sei veramente sicura che non si affronteranno? — chiese il ragazzo.
— Sì.
— Uh!
L’oracolo alzò lo sguardo. — Quello piccolo non recederà e non fuggirà, benché sia evidente che non potrebbe tenere testa a Eddie.
— Noi dobbiamo mangiare — dissi nel linguaggio dei doni.
L’oracolo fece il gesto che significava "andate".
Eddie e io entrammo nella cabina. Sul tavolo c’era già un piatto di panini, tostati e imburrati. Derek stava appoggiando un piatto di uova strapazzate. Tatiana uscì dalla cambusa portando una caffettiera piena.
— La Ivanova rimane sull’altra barca — disse Eddie. — Credo che stia cercando di guadagnare punti con i cinesi mangiando la loro colazione.
— Mai anteporre la politica alla digestione — osservò Agopian. Si sedette e allungò la mano per prendere un panino.
Mangiammo in silenzio, consapevoli, credo, della presenza degli alieni all’esterno. Le loro voci ci giungevano attraverso la porta aperta, basse e tranquille, mentre parlavano la lingua della loro tribù.
Tatiana sparecchiò la tavola. Eddie lavò i piatti e io li asciugai. Arrivò la Ivanova e parlò con Tatiana in russo. Guardai fuori dalla cambusa. Era evidente che discutevano, parlando in tono sommeso e attento, entrambe accigliate. Agopian ascoltava e non diceva niente.
Finimmo con i piatti.
La Ivanova disse: — Ci sono stati rumori nel bosco. Voci. Ho visto un paio di bambini fra gli alberi, che ci osservavano e non facevano niente. Ma non credo che sarebbe una buona idea lasciare le barche incustodite.
— Io devo rimanere — disse Tatiana. — E anche Yunqi. Voi altri dovete andare tutti al villaggio. Ho fatto un viaggio così lungo e adesso mi tocca fare il cane da guardia mentre a poche centinaia di metri di distanza si fa la storia.
— Potrebbe rimanere Agopian — suggerii.
Agopian disse: — Non ti perdonerò mai questa osservazione.
La Ivanova scosse il capo. — Lui è uno storico. Voglio che venga con noi.
Uscii sul ponte e guardai verso l’alto. Il cielo era sereno se si escludeva un gruppetto di nuvole. Avevano la forma di squame ed erano disposte in tante file.
— Nuvole a pelle di lucertola — disse Nia. Si alzò in piedi, poi si chinò e mise un coperchio sulla pentola dello stufato. L’impugnatura era fatta a forma di bipede, un carnivoro, chino e impegnato a mangiare un altro bipede che giaceva morto, un rilievo sul coperchio ricurvo.
Il ragazzo era sparito.
Feci il gesto della domanda.
— Gli ho detto che dovremmo essere presto al villaggio. È andato avanti.
La Ivanova uscì. — È meglio che andiamo.
La seguii sulla riva. I nativi mi vennero dietro. Il signor Fang era sulla pista, appoggiato a un bastone da passeggio. Gli altri ci raggiunsero: Agopian, Eddie, Derek, che si era cambiato. Adesso era vestito completamente di bianco: jeans aderenti e una camicia ampia e sottile. Le maniche erano a pieghe sciolte. Le spalle erano ricoperte di ricami, bianco su bianco.
— Dove te la sei procurata? — gli chiesi. — Non al reparto approvvigionamento.
— Un baratto.
Le sue scarpe erano di tela bianca assai riflettente, guarnite di cuoio bianco. Scintillavano e balenavano perfino nell’ombra della foresta.