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— Lixia! Come stai? — La sua voce era gaia e piacevole, con un leggero accento.

— Ho avuto una giornata interessante. — Gli raccontai l’accaduto, poi aggiunsi: — Ora arriviamo al problema. Non credo che la gamba sia rotta, ma non ne sono sicura. C’è un modo di scoprirlo anche senza un’esplorazione?

— Chiederò al team medico. Va bene se ti richiamo?

— Sì.

Concluse la trasmissione. Io mi alzai e mi stiracchiai, poi mi toccai cinque volte le dita dei piedi. Il mio stomaco gorgogliava e mi ricordai che non avevo cenato. Presi un pezzo di pane. Era stantio. Lo gustai comunque.

La radio emise un suono. L’accesi.

— Per prima cosa dicono che hanno bisogno di ulteriori informazioni. — Riuscivo a sentire la nota divertita nella voce di Antonio. — Dicono anche che una frattura dovrebbe provocare un’emorragia maggiore… di una distorsione, voglio dire. E un’emorragia produce lividi, di solito. O hanno detto "spesso"? In ogni caso, se nei prossimi tre giorni il suo piede diventerà nero e blu, può darsi che abbia una frattura. Ma anche una brutta distorsione può produrre dei lividi.

— Che cosa mi stai dicendo?

— Il solo modo di esserne certi è di fare un’esplorazione. I medici propongono di venire giù con la necessaria attrezzatura.

— Oh.

— Pensano che dovrebbero venire — disse Tony a bassa voce. — E a loro piacerebbe, piacerebbe terribilmente, mettere le mani su un nativo. È interessante ciò che si scopre quando si fa una domanda apparentemente semplice. Gli alieni non sono abbastanza alieni.

— Che cosa?

— Non mi riferisco al livello cellulare. In quello dobbiamo presumere che siano come il resto della vita sul pianeta. I biologi sostengono che è fuori di dubbio che gli organismi che hanno esaminato siano alieni e appartengano a una diversa linea evolutiva. È per questo che sono in grado di affermare, con tanta fiducia, che non possiamo prenderci le malattie locali. E non possiamo neppure contagiare le nostre malattie a nessun essere di questo pianeta. — Antonio fece una pausa. — Forse ti interesserà sapere che Eddie ha chiesto al team medico di controllare due volte questo fatto.

— Perché?

— Un’indigena è morta subito dopo che sei arrivata al tuo villaggio.

— Ho spiegato a Eddie di che cos’è morta la donna. Vecchiaia, veleno o magia. Non c’è stato niente di innaturale nella sua morte.

Antonio rise. — Eddie era preoccupato dei batteri inseriti nel tuo intestino. Quelli destinati a metabolizzare gli alimenti locali. Il team biologico l’ha negato categoricamente. I batteri non possono vivere al di fuori di un umano. Il team biologico si è offeso e ha parlato di gente che si muove al di fuori della propria area di competenza, soprattutto gente delle scienze sociali che, come tutti sanno, non sono scienze reali come la biologia e la chimica.

— Ohi.

— Il problema non è al livello cellulare. È il fatto che gli indigeni somigliano a noi. E non dovrebbero, secondo tutte le migliori teorie. Dovremmo avere a che fare con aragoste intelligenti o alberi parlanti.

"Secondo il team biologico, i nativi sono un esempio di evoluzione parallela, come la tigre marsupiale dai denti a sciabola del Sud America. Ma nessuno è davvero soddisfatto di questa spiegazione. Abbiamo bisogno di altre informazioni. Quelli del team medico vogliono dei campioni di tessuto, e vogliono sapere che cosa succede ai livelli intermedi, fra l’intero organismo che somiglia a noi e la biochimica che è quasi certamente aliena. Come sono gli organi? I muscoli e lo scheletro? Il sistema endocrino? La chimica del cervello? In breve, vogliono entrare in un indigeno e dare una gran buona occhiata attorno. Intendo riferire la cosa al comitato per l’amministrazione giornaliera."

— Okay.

— Nel frattempo, i medici dicono di trattare la ferita come una frattura.

— Okay. — Spensi la radio.

— Li-sa?

Era Nia. Le lanciai un’occhiata. Se ne stava sollevata su un gomito e mi fissava. I suoi occhi riflettevano la luce del fuoco. Brillavano come oro.

— Sì.

— C’è un demonio in quella scatola?

Diedi un colpetto alla radio. — Questa?

Nia fece il gesto dell’affermazione.

— No.

— Allora come fa a parlare?

— Un’ottima domanda. — Ci pensai per un momento. — È un modo con cui le persone possono parlare quando sono lontane fra di loro. Il mio amico ha una scatola come questa. Quando vi parla dentro, la sua voce esce da qui. — Tocccai di nuovo la radio. — Io posso rispondere parlando dentro la mia scatola.

Nia corrugò la fronte. — Fra il Popolo del Rame, il popolo di Nahusai, ci sono canti di richiamo. Quando Nahusai voleva qualcosa, pioggia o sole o uno spirito, faceva un disegno che raffigurava la cosa che voleva. Poi cantava al disegno. La cosa che voleva avrebbe sentito il suo canto e sarebbe venuta. Questo è quanto mi ha detto, in ogni modo.

Feci il gesto del dissenso. — Questa non è una cerimonia. È un utensile, come il tuo martello.

— Hakht non ci crederebbe.

— Che cosa ne sa?

Nia emise un suono iroso. — Questo è vero. Bene, allora, la scatola è un utensile, anche se è un genere di utensile che non ho mai visto prima. Non ho mai sentito neppure parlare di un attrezzo come quello. — Fece una pausa. — Sembra utile. Ora torno a dormire.

Al mattino mi svegliai prima di Nia. Il cielo era limpido e la luce del sole illuminava l’orlo del canyon. Andai fra le rocce e feci i miei bisogni, poi mi recai al fiume e mi lavai. Nel tornare passai accanto all’uomo morto. Era disteso sulla schiena, le braccia tese sopra la testa. Era grande e grosso, non alto, ma robusto e muscoloso, con una pelliccia lunga e ispida. Il suo gonnellino era marrone con ricami color arancione, e la sua cintura aveva una fibbia di rame.

Aveva la bocca spalancata. Gli vidi i denti, che erano gialli, e la lingua, che era spessa e scura. Gli occhi, anch’essi aperti, avevano l’iride color arancione.

Mi resi conto che avrei dovuto seppellirlo. Gli insetti si stavano già ammassando. Maledizione. Non avevo neppure un badile. Lanciai un’occhiata a Nia. Dormiva ancora. Mi chinai, afferrai una pietra e la deposi accanto al corpo. Puzzava di urina. Povero stupido. Che modo di andarsene! Ma c’era un bel modo? Andai a prendere altre pietre.

Gli insetti mi ronzavano attorno. Le nuvole si spostavano lente nello stretto cielo. Erano piccole e rotonde come batuffoli di cotone. Incominciava a farmi male la schiena. Mi scorticai una mano sul bordo ruvido di una pietra. La ferita non era grave. Non sanguinava nemmeno, ma bruciava.

Finalmente l’uomo sparì, nascosto dalle pietre. Era sufficiente. Non era necessario che gli facessi un tumulo. Mi raddrizzai. Ormai le nuvole erano scomparse e la luce del sole penetrava obliqua nel canyon. Nia si stava tirando su a sedere.

— Bene — disse. — Il suo spirito dovrebbe avere una casa. Altrimenti il vento lo prenderà e lo trasporterà in giro per il cielo. Nessuno merita un tale destino.

— C’è qualche cerimonia che bisognerebbe celebrare?

— No. Se ci fosse qui una sciamana, canterebbe. Questo scaccerebbe la malasorte. Ma non so le parole giuste e neppure che cosa bruciare nel fuoco. — Aggrottò la fronte e si grattò il naso. — Dovrei fare qualcosa. Gli darò un coltello. Un dono d’addio.

— D’accordo — dissi.

Facemmo colazione, poi fasciai la mano di Nia. Non parlammo molto. Nia aveva l’aria stanca e io mi ritrovai a pensare all’uomo morto sotto il mucchio di pietre.

All’incirca a metà mattina la mia radio ronzò.

— La tua scatola — disse Nia. — Vuole parlare con te.