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Nel pomeriggio inoltrato ci fermammo presso un basso monticello. Smontai di sella, mi stiracchiai e gemetti.

— Mi occuperò io degli animali — disse Nia.

— Ne sei sicura?

Nia fece il gesto dell’affermazione. — È evidente che tu non sai niente di cornacurve.

Feci il gesto dell’assenso e salii sul monticello. Nel cielo sopra di me un unico uccello si muoveva in un ampio e lento cerchio. Feci la mia ginnastica, poi meditai. Ero talmente irrigidita che riuscii a stento a mettermi nella posizione del semiloto.

Nia finì di accudire gli animali e si allontanò gironzolando. Tornò con le braccia piene di roba. Era rotonda, grigia e friabile.

— Sterco — mi spiegò. — È rimasto dalla primavera, quando sono passate le mandrie.

Accese un fuoco, usando lo sterco come combustibile. Cenammo con pane e un pezzo di carne che aveva l’aspetto e il gusto del cuoio. Finito di mangiare, restammo sedute a osservare il fuoco.

Mi informai sulla sua caviglia.

— Fa male. E anche le altre ferite. — Fece una breve pausa. — Mi sono sentita peggio. Sopravviverò.

La parola che usò significava "durare", "mantenersi", "restare utilizzabile", "non esaurirsi".

— Bene. — Lanciai un’occhiata al monticello. Non mi dava l’idea di essere naturale. Sembrava artificiale. Che cosa ci faceva lì da solo nel bel mezzo della pianura? — Da chi è stato fatto? — Lo indicai col dito.

— Non lo so. Non è opera di animali. È troppo grande. Forse l’hanno fatto delle donne. O dei demoni. Gli spiriti non costruiscono. — Sembrava disinteressata. Che la sua gente non avesse il senso della storia? Oppure Nia era soltanto stanca?

— Dove andremo? — m’informai.

Nia corrugò la fronte. — C’è un posto nel quale desideri andare?

— Un altro villaggio. Voglio imparare altre parole e usanze.

— Le popolazioni che vivono a ovest di qui viaggiano tutte e in questo momento i loro villaggi si trovano su a nord. Ma se andiamo sempre avanti dovremmo riuscire a incontrare il Popolo del Ferro quando torna verso sud. — Esitò. — Mi è venuto in mente che mi piacerebbe vedere i miei figli.

— Ma quelle persone ti hanno scacciata. Non è probabile che lo facciano di nuovo?

— Probabilmente lo farebbero, se arrivassi da loro da sola. Ma tu sei una straniera. Chi potrebbe mai essere più estraneo? E loro sanno, assai meglio del Popolo del Rame, ciò che è dovuto agli stranieri.

— Che cosa? — domandai.

Nia parve sorpresa. — Cibo. Un posto dove dormire. Aiuto, se è necessario. Racconti e doni. Non è mai corretto scacciare una straniera, a meno che non sia violenta.

— Ma è giusto scacciare un membro del proprio villaggio?

— Sì. Che danno può venire da qualcuno di passaggio? Se un’estranea di passaggio ha idee insolite, è una cosa prevedibile. Se si comporta in modo strano, se ne andrà comunque abbastanza presto. Ma se un’abitante del villaggio è pervertita, litigiosa o pazza… Ah! Questo è un problema serio!

Uno splendido ragionamento. Sorrisi.

— Tu stai mostrando i denti — osservò Nia. — Sei arrabbiata?

— No. La mia gente mostra i denti quando è contenta.

— Aiya! Il Popolo del Ferro ci lascerà sicuramente entrare!

Il giorno successivo fu uguale al primo, e il terzo giorno fu uguale al secondo. Il tempo si manteneva caldo e sereno. La pianura si estendeva sempre piatta e coperta di pseudo-erba, e neppure questa era cambiata. Restava alta circa un metro, verde, verdeazzurra e gialla. La forma predominante di vita animale erano gli insetti. Svolazzavano e ronzavano tutt’attorno a noi.

Come faceva la storia?

Un vescovo chiedeva a un biologo: "Che cosa ti hanno insegnato i tuoi studi sul Creatore?".

E il biologo rispondeva: "Che nutre un amore smodato per gli insetti".

Dopo quattro giorni ci imbattemmo in un nuovo tipo di vegetazione: una pianta di un verde brillante che sembrava erba o pseudo-erba, se non che era alta cinque metri. Costituiva un muro che si spingeva a nord e a sud fin dove l’occhio poteva arrivare.

— Qui c’è dell’acqua — disse Nia. — Questa roba cresce presso le rive dei fiumi.

Cavalcammo verso nord lungo quella barriera. Non c’era modo di attraversarla. Gli steli crescevano troppo vicini fra loro, e le foglie avevano bordi ruvidi.

— Tagliano — mi spiegò Nia. — Ecco quello che cercavo. — Tirò le redini dell’animale e indicò col dito. — Un sentiero.

Smontammo. Io mi lamentai come sempre, ma il dolore incominciava a diminuire. Nia s’incamminò lungo il sentiero. La seguii, conducendo il mio animale, che mi sollecitava. Doveva aver fiutato l’acqua. — Finiscila! — Diedi una pacca sul muso della creatura, che sbuffò.

— Fa’ silenzio — mi ordinò Nia. — Non si può mai dire che cosa stia in attesa vicino a un fiume.

La vegetazione finì. Ci trovavamo sulla riva del fiume. Di fronte a noi uno stretto rivolo serpeggiava su un ampio letto sabbioso. Sull’altra sponda cresceva ancora quell’erba enorme. Più a valle c’era una pozza d’acqua.

— Aiya! - esclamò Nia.

Nella pozza c’era un uomo. Era nudo ed era privo di pelliccia. La sua pelle era bruna, i lunghi capelli biondi. Sulla schiena aveva un tatuaggio: un complesso disegno geometrico. Raffigurava le forze cosmiche dentro e attorno la Balena Grigia. La balena, o meglio il disegno della balena, era il totem della sua capanna. Forse avrei dovuto usare la sua terminologia. Era il mandala della sua eco-nicchia.

Aveva una canna da pesca e la stava lanciando con tutta la sua consueta abilità.

— Ho una domanda per te — fece Nia. — Sai che cos’è quello?

— Una persona. Un mio amico.

Lui si guardò attorno e tirò su la lenza, poi si avvicinò sguazzando alla riva. La barba e i peli pubici erano di un bruno rossiccio. Sul torace e le braccia aveva le cicatrici dell’iniziazione. La canna da pesca che portava era fatta a mano. Era lunga, molto lunga, e priva di mulinello.

— Come va? — chiesi in inglese.

— La canna da pesca? Non molto bene. — Sorrise. — Ma ho dei pesci. — Posò a terra la canna. — Tu sei Nia — disse nel linguaggio dei doni. — Io sono Derek. Appartengo alla tribù degli Angelinos. La casa a cui appartengo è la casa de… — Esitò un momento. — Del grande pesce. Il nome che mi sono guadagnato è Colui-che-lotta-nel-mare. Ed è meglio che te lo dica, sono un uomo.

— L’avevo pensato — replicò Nia. — Benché sia difficile sentirsi sicuri di qualcosa quando si ha a che fare con persone così diverse. Sei santo? Come la Voce della Cascata? È per questo che sei nudo?

— No. Torno subito. — Si allontanò lungo il fiume, muovendosi rapidamente, e in un attimo sparì alla vista.

Nia mi guardò. — Non credevo davvero che ci fossero altre persone uguali a te. Credevo che fossi qualcosa di particolare, come i piccoli che hanno talvolta le nostre femmine. Hanno cinque gambe o due teste. Noi li uccidiamo, e la sciamana esegue cerimonie per scacciare la cattiva sorte.

Derek tornò con indosso un paio di jeans. Aveva i capelli tirati indietro e legati sulla nuca. Portava una collana fatta di conchiglie e frammenti d’osso e un ciondolo di metallo. Era lo stesso che portavo io, un registratore audiovisivo.

Come sempre aveva quel suo aspetto aggraziato e barbaro. Aveva una laurea in antropologia ed era ordinario presso l’Università di San Francisco, in permesso al momento, naturalmente. Un permesso piuttosto lungo. Non sarebbe stato di ritorno per altri 120 anni, come minimo.

— Adesso prendiamo i pesci. — Andò al fiume e tirò fuori uno spago sul quale erano infilati sei pesci: lunghi, sottili e di un grigio argenteo. Li tenne sollevati. I pesci si dimenavano e sbattevano la coda. — Voi occupatevi dei vostri animali. Io mi occuperò dei miei.

— Bene — disse Nia.

Quando tornammo, Derek stava già aprendo l’ultimo pesce. Vicino a lui ardeva un fuoco. I restanti pesci erano distesi in una fila ordinata su una roccia, sventrati.