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— I suoi occhi hanno sempre avuto uno sguardo cattivo — fu il commento di Hua.

Nia fece il gesto dell’assenso.

La primavera arrivò presto. La pianura divenne di un azzurro chiaro. Gli arbusti lungo il fiume misero dei fiori gialli. Nia si sentiva quasi felice.

— Vedi — disse Hua. — Superiamo sempre qualunque cosa.

— No. Questo non lo credo.

— Vedrai.

Giunse la stagione degli accoppiamenti. Ti-antai, che aveva appena finito di svezzare il suo ultimo bambino, sentì la smania primaverile e partì. Nia si trasferì nella sua tenda e si prese cura dei bambini.

Dieci giorni più tardi, Ti-antai fece ritorno. Appariva scompigliata e rilassata. — Bene, è finito. — Si stiracchiò e sbadigliò.

— Hai visto Anasu?

— Naturalmente no. Nia, che cosa c’è che non va? Lui deve trovarsi molto a sud con gli altri giovani. Non sono arrivata fin laggiù. — Ti-antai arrotolò una coperta fino a farne un guanciale, poi si coricò. Sbadigliò di nuovo. — Mi sono presa un tipo grande e grosso, a mezza giornata di viaggio da qui. Fa dei bei lavori di intaglio. Mi ha dato un corno per il sale pieno di sale. Mmm! Ho bisogno di dormire!

Nessuna delle donne aveva incontrato Anasu, ma nessuna di loro si era spinta molto a sud. Si erano accoppiate tutte con uomini più vecchi, che avevano il proprio territorio in prossimità del villaggio.

— Non preoccuparti — le disse Hua. — Fra un anno, due o tre qualcuno lo incontrerà e te lo riferirà.

Nia fece il gesto che significava che aveva capito. Mentre faceva il gesto, pensò che c’era qualcosa che non andava. Qualcosa di sbagliato. Perché così spesso la gente si sentiva sola?

Andarono a nord nella Terra dell’Estate. Una volta che si furono sistemati, Nia si guardò attorno in cerca di nuovi amici. Aveva passato troppo tempo con Anasu e aveva fatto troppo affidamento su di lui.

Scelse come amica la più giovane Angai. Angai era la figlia della sciamana, una ragazza esile, sveglia, spesso sarcastica. Ma sapeva parecchie cose interessanti: i diversi modi di impiegare le piante, il significato dei voli degli uccelli. Al pari di Nia, era sola.

— Ho molte capacità — spiegò a Nia. — Ma non quella di fare amicizia. È terribile!

Nia la osservò. Stava facendo dell’ironia? Sì. Un angolo della sua bocca era piegato all’ingiù, segno che non pensava davvero ciò che aveva detto.

Durante i festeggiamenti della mezza estate, si ubriacarono insieme e si addormentarono fra le braccia l’una dell’altra.

Sul finire dell’estate, Nia fece una collana per Angai. Ogni maglia era un uccello fatto in argento.

— È meravigliosa! — esclamò Angai. Abbracciò Nia, poi si mise la collana. — Tutte le donne del villaggio mi invidieranno!

— Pensi troppo all’opinione degli altri. Angai parve irritata, poi disse: — Può darsi.

Dopo di che Angai si comportò freddamente per un giorno o due. Poi arrivò alla fucina di Hua e portò un dono. Era un unguento che toglieva il dolore di qualunque scottatura.

— È una ricetta di mia madre. L’ho fatto io questa volta. Mia madre dice che è buono.

Nia prese il vasetto. — Grazie.

— Adesso possiamo smettere di litigare?

Nia rise. — Sì.

L’autunno fu asciutto e il viaggio verso sud agevole, quasi piacevole. Nia e Angai erano sempre insieme. Qualche volta Angai viaggiava sul carro di Hua. A volte Nia cavalcava accanto al carro della sciamana. Naturalmente, non vi salì mai. Era pieno di oggetti magici.

Un giorno si allontanarono dalla carovana. Lasciarono correre i loro cornacurve e, quando gli animali incominciarono a essere stanchi, si fermarono. Il territorio era piatto e deserto. Non videro nulla all’infuori della gialla pianura e del cielo verdeazzurro. Da qualche parte lì vicino un uccello terrestre cantava: un fischio, uno schiocco, un fischio.

— Mmm! — esclamò Nia, massaggiando il collo del cornacurve.

— Ci sono momenti — disse Angai — in cui mi stanco della gente. Penso che vorrei essere un uomo e vivere per mio conto.

— Tu hai molte idee strane.

Angai fece il gesto dell’assenso. — Mi viene dal vivere con mia madre. Passiamo la notte qui fuori, lontano da tutti.

— Perché?

Angai fece il gesto che esprimeva incertezza.

— Questa non è una vera ragione — disse Nia. — E io non desidero fare le cose che fanno gli uomini.

Nel tardo pomeriggio fecero ritorno alla carovana. Era ancora in movimento. I carri e gli animali sollevavano nubi di polvere. Mentre si avvicinavano, Nia udì il suono delle voci: donne e bambini che sbraitavano. Per un attimo il baccano la irritò. Voleva tornare indietro, verso il silenzio della pianura.

Non lo fece. Invece proseguì, cercando il carro di Hua.

Quando arrivarono nella Terra dell’Inverno, Ti-antai si ammalò. Cominciò a perdere sangue e abortì. La sciamana tenne una cerimonia di purificazione e un’altra per allontanare altri eventi sfortunati. Dopo di che Ti-antai cominciò a stare meglio, ma molto lentamente. Stette male fino a inverno inoltrato.

Non successe nient’altro di importante, a parte il fatto che Nia scoprì di poter andare d’accordo con Suhai. Cominciarono a scambiarsi visite; non spesso, ma una volta ogni tanto. Suhai stava diventando vecchia. C’erano peli grigi nella sua pelliccia. Le sue ampie spalle si erano afflosciate. Si lamentava del freddo dell’inverno e dell’ingratitudine delle proprie figlie.

— Non vengono mai a farmi visita. Dopo tutti gli anni di cure, mi lasciano sola. Tutto questo è corretto? È normale e giusto?

Nia non disse nulla.

— Ebbene? — domandò Suhai.

— Non intendo criticare il loro comportamento. Il proverbio dice di non parlare male di parenti o di qualsiasi altro con cui viaggi. Il proverbio dice anche di non interferire nei bisticci degli altri.

— Uh! Ho tirato su una donna saggia, vero?

Nia non rispose.

Suhai si alzò, muovendosi in modo rigido. — Non ho intenzione di stare ad ascoltare una bambina che sputa saggezza come il pesce dell’antica leggenda che sputa pezzi d’oro. È innaturale. Addio.

— Addio, matrigna. Ti verrò a trovare fra un giorno o due.

Arrivò la primavera. Era di nuovo precoce. Nia incominciò a sentirsi nervosa. Di notte era disturbata da sogni. Spesso, nei sogni, vedeva il fratello o altri giovani, perfino il folle Gersu.

Quando si alzava, di solito era stanca e trovava difficile concentrarsi su qualsiasi cosa. Incominciò a fare errori alla fucina.

— Non riesci a fare niente nel modo giusto? — le domandò Hua.

Nia la fissò, sbigottita.

— Be’, è comunque una risposta, ma non è una buona risposta — osservò Hua.

Da ultimo raccolse la lama di un coltello che era ancora rovente e si bruciò seriamente la mano. Hua si prese cura della bruciatura, poi disse: — Adesso basta. Vattene. Non tornare finché non sarai in grado di lavorare.

Angai le diede una pozione che le calmò il dolore. Dormì parecchio. I suoi sogni erano frammentari, oscuri, e la turbavano. Le pareva che in essi ci fosse sempre Anasu.

Finalmente la mano smise di farle male. Ma ora le sembrava che tutto il suo corpo fosse pieno di strane sensazioni: pizzicori e formicolii. Spesso provava un gran calore, sebbene si fosse ancora all’inizio della primavera. Il tempo non era particolarmente caldo.

Andò a trovare Ti-antai.

— La smania primaverile — sentenziò la cugina. — La scorgo sul tuo viso. Bene, sei abbastanza grande. Adesso prepara i tuoi bagagli. Cibo e un dono per l’uomo. Qualcosa di utile. Della stoffa o un coltello. Sarai pronta a partire fra un giorno o due.

Lei preparò i bagagli. Quella notte non dormì affatto. Il suo corpo era in fermento e scottava. Al mattino uscì. La carezza del vento la fece rabbrividire. È ora di andare, pensò. Prese il suo cornacurve preferito e lo sellò, poi andò a prendere le sue bisacce da sella.

— Sii prudente — le disse Hua.