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Per un attimo Nia restò seduta in silenzio a fissare il fuoco. — Come fanno a generare figli?

— Nel solito modo. Il Popolo dell’Ambra sostiene che pochissime fra le donne si accoppiano soltanto con altre donne. La maggior parte di loro vuole avere figli, così si accoppiano con gli uomini finché non hanno tutti i figli che vogliono.

Nia si grattò di nuovo la testa. — È una storia molto strana.

— Sì. Mi piacerebbe andare a visitare quel popolo.

— Sono delle pervertite! — saltò su Hua. — E le donne del Popolo dell’Ambra sono una massa di bugiarde. Non esiste un popolo simile. Case di legno! Che idea balorda!

Angai aveva l’aria infuriata.

— Non voglio parlare più di questo — disse Nia. — Questa storia mi mette a disagio.

L’inverno fu freddo. Di notte, nel cielo a settentrione, brillavano luci. Erano verdi, bianche e gialle.

— Il fuoco dell’inverno — spiegò Hua. — Lassù a nord riempie il cielo. Noi non lo vediamo spesso quaggiù.

— Porta sventura — sentenziò Ti-antai.

Cadde la neve. Al villaggio ci fu un’epidemia di tosse e molte persone morirono. Erano per lo più donne anziane e bambini molto piccoli.

Suhai si prese la malattia. Per qualche tempo, nel periodo buio dopo il solstizio, tutti pensarono che sarebbe morta. Ma alla fine si ristabilì, seppure lentamente. Per tutto il resto dell’inverno rimase nella sua tenda, accudita da Nia e da Ti-antai. Era duro per Nia andare a trovarla e vederla rannicchiata lì accanto al fuoco. La sua pelliccia era più grigia che bruna e aveva un aspetto ossuto e infelice.

Nia si domandava perché mai le si contraesse la gola alla vista della vecchia. La matrigna non le piaceva neppure.

Finalmente giunse la primavera, una primavera fredda e piovosa. Le mani di Hua divennero così rigide che non era in grado di lavorare alla fucina. — Questo posto è pervaso dalla malasorte — si lamentò.

— Credo che tu abbia ragione — convenne Nia.

Gli alberi misero foglie di un colore azzurro chiaro e fra le canne rinsecchite nel lago sbocciavano fiori. Erano gialli e arancione. Altri fiori, bianchi e minuscoli, comparvero ai margini della pianura. Nia incominciò a sentirsi irrequieta. La smania primaverile, pensò. Iniziò così a radunare provviste.

— Perché io non provo la smania? — domandò Angai.

— Tu sei più giovane di me. — Nia si chinò e osservò gli oggetti che aveva preparato durante l’inverno: lunghi coltelli e aghi, fermagli, lime e punteruoli. Qual era il dono adatto?

— Sono più giovane solo di mezzo anno — disse Angai. — Non è molto.

— Perché lo chiedi a me? Che cosa ne so? Domandalo a tua madre.

Angai se ne andò. Nia comprese che era in collera. Peccato. Allungò la mano e raccolse un coltello. Aveva una buona lama, fatta di ferro che era stato piegato e ripiegato. Questo sarebbe andato bene, pensò. E anche aghi e un fermaglio, e magari del cuoio della conciapelli.

Si alzò in piedi. E ora, del cibo per il viaggio.

Quella notte sognò di Anasu e di cavalcare per la pianura. Si svegliò, sentendosi più smaniosa di prima. Sollevò il lembo della tenda e lo fissò, lasciando entrare la luce del sole. L’aria era tranquilla e mite e odorava della vegetazione nuova. Pensò: partirò oggi, prima che la smania diventi ancora più forte. Cavalcherò finché non dimenticherò questo inverno terribile. Si voltò a guardare Hua.

— Lo so — disse la vecchia. — Qualche volta vorrei provare ancora la smania. Allora penso: devo essere davvero pazza per desiderare una cosa del genere. In ogni caso, va’.

Nia riempì le bisacce da sella e andò in cerca del suo cornacurve preferito. A mezzogiorno era già in viaggio. Il cornacurve era irrequieto e voleva correre e Nia glielo permise. Dopo un po’, l’animale rallentò, poi si fermò. Nia si guardò attorno. Era sola. Da ogni parte, la pianura si estendeva ondulata fino all’orizzonte. Trasse un respiro profondo, poi espirò. Il cornacurve agitò le orecchie.

Dove voleva andare? Non a ovest, decise. Là c’erano la mandria e gli uomini maturi. No. Sarebbe andata a sud, verso le colline dove stavano i giovani. Lanciò uno sguardo al sole e poi alla propria ombra, quindi diresse il cornacurve verso sud.

Viaggiò per tre giorni. Il tempo si mantenne sereno. Non incontrò neppure una persona, nulla all’infuori degli uccelli e dei piccoli animali che vivevano sulla pianura. Pian piano la smania andava facendosi più forte. Era una sensazione quasi piacevole. Cominciò a chiedersi che genere di uomo avrebbe incontrato quell’anno.

Il quarto giorno il cielo si annuvolò e si levò il vento. A mezzogiorno Nia arrivò alle colline meridionali. Erano basse, con parecchi affioramenti di roccia. C’erano alberi sulle colline. Una specie era in fiore. Qui e là, sui pendii azzurrognoli, c’erano chiazze di giallo. Nia trovò impronte di animali che costeggiavano un corso d’acqua. Conducevano a est, fra le colline. Seguì quella pista, sentendosi un po’ inquieta. Non era abituata ai luoghi dove il cielo era limitato.

— Oh Madre delle Madri, abbi cura di me — bisbigliò.

Più in alto, i rami si muovevano. Le foglie stormivano, un rumore forte, diverso dal sommesso fruscio della vegetazione che si muoveva sulla pianura.

Nia pregò la Signora della Fucina. — Riportami a casa sana e salva, o santa.

Nel tardo pomeriggio incontrò un uomo. Era in cima a una collinetta, seduto su una roccia. Non c’erano alberi nelle vicinanze, solo arbusti dalle piccole foglie verdeazzurre. Il suo cornacurve stava brucando un arbusto.

Nia trattenne l’animale. Il suo cuore cominciò a battere all’impazzata.

— Mi sembrava di aver visto una donna. Che sorpresa! Nia, sei tu?

Lei lo guardò. Era bruno scuro e i suoi occhi erano grigi. Un colore molto insolito. — Enshi? — Notò che la sua tunica era sbrindellata. Appariva magro.

— Come sta mia madre? E tu che ci fai qui? Le donne non si spingono mai così a sud.

Lei aprì la bocca per rispondere. Enshi si alzò, poi saltò giù dalla roccia. — Parliamo più tardi. C’è un odore che emana da te, Nia. Non so dirti l’effetto che mi fa. — Tese una mano. — Andiamo.

La sua pelliccia scura scintillava al sole. Tutt’a un tratto Nia si rese conto di quanto fosse bello. Smontò e legò il suo cornacurve, poi prese il mantello.

Andarono fra i cespugli e si accoppiarono lì. Il terreno era sassoso. Le foglie avevano un fresco profumo primaverile. Quanto a Enshi, era un po’ impacciato, ma perfettamente all’altezza.

Quando ebbero finito, lui si rigirò sulla schiena. — È tutto qui, allora? Mi aspettavo di più. Tuttavia… — La guardò, gli occhi grigi semichiusi. Allungò una mano e la toccò con dolcezza. — Che pelliccia morbida! — Fece un sommesso suono di gola, una specie di ruh, poi chiuse del tutto gli occhi e si addormentò.

Nia tirò su il mantello in modo da coprirli entrambi. Osservò i cornacurve, poi il cielo. Il sole era sparito ma le nuvole avevano ancora una radiosità bianca e di un oro tenue. Si sentiva assonnata e felice.

Enshi il Buffone! Non aveva mai neppure immaginato di accoppiarsi con lui. Anzitutto, pensava che lui fosse morto. Chi avrebbe creduto che sarebbe riuscito a sopravvivere al terribile inverno?

Enshi si svegliò al crepuscolo. Le lanciò un’occhiata. — Non è stato un sogno. Se gli spiriti sono responsabili di questo, li ringrazio. — L’afferrò e si accoppiarono di nuovo. Dopo di che scesero nella valle più vicina e si accamparono. La notte era fredda e ventosa. Brandelli di nuvole riempivano il cielo. Il fuoco tremolava. Enshi incominciò a parlare.

— Che cosa ci fai tanto a sud? Come mai non non ti ha presa uno degli uomini grandi prima che tu arrivassi da Enshi?

Lei rifletté per un momento. — Volevo venire quaggiù. Volevo trovare mio fratello Anasu. — S’interruppe, provando un certo stupore. Era quella la verità? Era venuta in cerca di Anasu?

— Davvero? — Enshi la fissava. — Perché?

Nia si grattò la testa. — Non lo so. Sai dove sia?

Enshi fece il gesto dell’affermazione. — Prendo da lui il mio sale. Ero solito farlo, in ogni modo. L’inverno è stato duro e non credo che mi sia rimasto qualcosa da dargli in cambio.

Nia aprì la bocca.

Enshi la guardò. I suoi occhi erano socchiusi. Aveva un’aria pensierosa, quasi astuta. — Tu vuoi che ti dica dove si trova. Non lo farò. Se sei venuta fin qui per vedere lui, allora è probabile che tu prosegua e mi lasci qui da solo, con la sensazione di essere uno stupido. Non ho intenzione di lasciarti andare, Nia. Non prima che sia finito il tempo dell’accoppiamento.

— Non si può dire che tu non sia loquace — osservò Nia.

Enshi fece il gesto dell’assenso. — Ricordati, non ho avuto nessuno con cui parlare per tutto l’inverno.

— Mi dirai dove si trova Anasu quando sarà finito il tempo dell’accoppiamento?

— Sì.

Nia fece il gesto che significava "così sia".

— Allora — cominciò Enshi — parlami di mia madre. Sta bene? Si affligge ancora per me?

Nia tracorse otto giorni insieme a Enshi. Il tempo si mantenne freddo e ventoso. Ogni tanto cadeva la pioggia, ma non era violenta. Gli alberi sopra il loro accampamento li riparavano; inoltre, mantenevano acceso un bel fuoco. Si accoppiarono spesso.

Ogni mattina Enshi andava a caccia. Al pomeriggio tornava con foglie, radici e i teneri germogli delle piante primaverili. Due volte riportò della selvaggina: un uccello terrestre, smagrito dall’inverno, e un costruttore-di-monticelli. Quest’ultimo era piccolo, ma grasso. O almeno non era magro.

— Se l’è cavata meglio di me quest’inverno — osservò Enshi.

Nia scuoiò l’animale, lo sviscerò e lo infilzò sullo spiedo. Poi si sedettero fianco a fianco a osservarlo mentre cuoceva.

— Mmm! Che profumo! Ero solito sognare il profumo della carne che cuoceva. Mi svegliavo e non trovavo nient’altro che neve. Che delusione! C’erano periodi in cui il tempo era brutto e non potevo viaggiare. Incominciavo a guardare il mio cornacurve e a pensare a lui come a un arrosto. Ma poi pensavo: no, Enshi. Morirai senza un animale da cavalcare. Poi pregavo gli spiriti; e il tempo cambiava. Andavo giù fino ai margini della mandria in cerca di un cornacurve che fosse troppo vecchio per scappare e lo uccidevo. La carne era sempre fibrosa, senza nemmeno un po’ di grasso. Bene, quei giorni sono finiti. Perché pensarci?

Nia rigirò lo spiedo. Mentre l’altro lato dell’animale cuoceva, si accoppiarono.

Il giorno seguente Nia preparò una trappola per i pesci e la sistemò nel corso d’acqua sul fondo della valle. Quella sera mangiarono pesce farcito di erbe aromatiche.

— Che brava cuoca sei — disse Enshi. — Quasi brava quanto mia madre.

Nia si sentì irritata. Sembrava che Enshi non facesse altro che parlare di sua madre. Non era giusto. Un ragazzo allevato nel modo appropriato parlava di sé o degli anziani che gli avevano insegnato a essere uomo. Non andava avanti per ore a parlare della propria madre.

— Com’è Anasu di questi tempi? — gli chiese.

Enshi fece il gesto che significava "chi può dirlo?". — L’ho incontrato due volte. La prima volta ho cercato di parlargli ma lui ha detto: "Non voglio fare conversazione, Enshi. Che cos’hai che sei disposto a darmi?". Non ha voluto aggiungere altro. Io ho tirato fuori una delle tazze di bronzo di mia madre e l’ho deposta per terra. Lui ha tirato fuori un sacchetto di sale, poi mi ha fatto cenno di indietreggiare. Quando sono stato abbastanza lontano, è venuto a prendere la tazza, poi ha messo giù il suo sacchetto. Tutto qui. Se ne è andato e io ho raccolto il sale. La seconda volta che l’ho incontrato, non ha neppure aperto bocca. — Enshi esitò per un momento, poi proseguì. — È più amichevole degli altri uomini. Non fa mai boccacce e non agita le armi contro di me.

Non sembrava promettere bene. Anasu sarebbe stato disposto a parlare con lei? Nia non lo sapeva.

Il periodo dell’accoppiamento terminò. Nia diede a Enshi i suoi doni. Lui pareva a disagio. — L’inverno è stato duro. Ho perso la maggior parte dei miei doni di addio. Prima un assassino-delle-foreste ha trovato il mio nascondiglio e l’ha distrutto, poi ho perso gran parte di quel che restava questa primavera mentre attraversavo un fiume. Ma compongo poesie. Posso offrirtele?

— Sì.

Ne recitò nove o dieci. In seguito Nia se ne ricordò solo una. Parlava di un albero che lui aveva visto qualche giorno prima.

— Tutti i rami erano spogli e la corteccia si stava staccando. Ciò nonostante, c’erano virgulti tutt’attorno all’albero, che crescevano dalla sua base. Erano lunghi come il mio braccio. Avevano foglie e fiori. Ho pensato che questo doveva avere un senso. E ho composto una poesia. Fa così: