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Da una certa distanza, sembrava che il collo, piegato in modo innaturale, fosse spezzato. Sopra il lenzuolo che le copriva il corpo, il volto pallido dai lineamenti già deformati dalle numerose protuberanze era stato sorprendentemente risparmiato. Vi era tuttavia un rivoletto di sangue essiccato che scendeva dall’angolo della bocca, una bocca che non avrebbe più cantato. Con l’impressione che qualcosa le stesse comprimendo il petto, Nikki fece un passo avanti e, piano piano, sollevò il lenzuolo. La polizia o il tecnico dell’autopsia le avevano strappato i vestiti. Come Nikki, anche lei amava correre, ed era più larga di spalle e più muscolosa dell’amica. Quando i loro orari di lavoro lo permettevano, correvano volentieri insieme. Ora il corpo di Kathy appariva fragile e ossuto. Aveva evidentemente subito un urto da sinistra, un impatto a grande velocità. Il braccio era quasi del tutto strappato all’altezza della spalla e, da quel lato, la parete toracica era incavata. Era solo una misera consolazione, ma data l’angolazione della testa e la probabilità che il colpo al torace le avesse tranciato l’aorta, la morte doveva essere stata istantanea.

Per alcuni momenti, il suono del mandolino di Kathy le riempì la testa. Era l’assolo, svettante, avvolgente e sbalorditivo, da Nik the Quick, un pezzo che Kathy aveva scritto per lei e registrato nel secondo album del complesso.

Grazie a Dio per i CD. Una parte di Kathy Wilson avrebbe continuato a vivere, finché viveva la sua musica.

Nikki riabbassò delicatamente il lenzuolo, quindi si chinò e baciò l’amica sulla fronte.

«Ho finito, Joe», riuscì a dire.

Tornò nello studio di Keller e si lasciò cadere sulla sedia di fronte a lui.

«Avresti dovuto sentirla suonare e cantare, Joe. Quando finiva, tutti si alzavano in piedi e applaudivano, chiedendo ad alta voce un bis. Faceva ballare gli ottantenni, era splendida.»

«Grazie al nastro che mi hai portato, posso dire, in tutta sincerità, che sono d’accordo con te. La sua non è una musica cui sono abituato, ma mi piace.»

«Mi fa piacere sentirtelo dire. Joe, se fosse possibile, puoi fare tu il postmortem autoptico sul cadavere?»

Non permettere che le si avvicini Brad Cummings!

«Era mia intenzione», rispose lui. «Lo farò questa sera stessa.»

Dalla morte della moglie, Keller aveva sposato il lavoro. Lo si poteva trovare nel suo studio a tutte le ore, fine settimana compreso, curvo sul microscopio, a interrogare le cellule e le loro aggregazioni, ricevendone spesso risposte. Non era certo insolito per lui trascorrere la notte in una delle camera di guardia.

«E, Joe?»

«Sì?»

«Ho un altro favore da chiederti. Anche se ti sembra del tutto normale, potresti fare un esame autoptico del cervello?»

Keller le lanciò un’occhiata interrogativa.

«Anche se non notassi alcun problema, vuoi che sezioni, fissi e colori il cervello?»

A differenza della maggior parte degli altri tessuti, i vetrini del cervello richiedevano una fissazione e una colorazione lunga, dettagliata e costosa. Non si poteva eseguire l’esame microscopico prima che fossero passati alcuni giorni, a volte addirittura due settimane. A causa del costo, a meno che un primo esame avesse rivelato un problema anatomico cerebrale, l’esame al microscopio non veniva mai eseguito.

«Per favore, fallo in ogni caso», lo pregò. «Fa’ qualsiasi colorazione ti venga in mente alla ricerca di tossine. Era impazzita, Joe. Continuava a parlare di persone che cercavano di ucciderla. Nel giro di pochi mesi si era trasformata da una delle donne più creative, affascinanti e concentrate, in una persona paranoica che temeva che io stessa cercassi di farle del male.»

«Come posso dirti di no?»

«Grazie, Joe.»

«Ehm… non vorrei renderti questa giornata ancora più difficile, ma nessuno ha ancora avvisato la sua famiglia.»

«Immaginavo che avrebbe voluto lo facessi io. Entrambi i suoi genitori sono ancora vivi. Negli ultimi anni Kathy non si sentiva più molto vicina a loro, ma erano in contatto e, quando poteva, faceva suonare il complesso dalle loro parti.»

«Di dove era?»

Estrasse dalla borsa un’agendina tutta stracciata.

«Viene da una città carbonifera nei monti Appalachi. Ho qui il suo numero telefonico e l’indirizzo. Il paese si chiama Belinda. Belinda nel West Virginia.»

8

Il telefono aveva squillato a lungo, prima che Matt afferrasse la più vicina delle quattro sveglie che aveva appoggiato sempre più lontano dal letto. Con la sveglia spenta premuta al petto, si stava sistemando in una posizione fetale quando si rese conto che lo scampanellio continuava.

«Pronto?»

«Dottor Rutledge, sono Jeannie Putnam del pronto soccorso.»

«Che bello.»

«Dottor Rutledge, è sveglio?»

«Sono sveglio. Sono sveglio. Da quanto tempo lavora all’ospedale, Jeannie?»

«Da tre mesi, perché?»

«Non mi creda quando dico che sono sveglio.»

«Ma ora lo è?»

«Sì.» Matt accese la lampada sul comodino. «Solo che non sono di guardia.»

«Lo so, ma è appena arrivato qui, al pronto soccorso, un uomo che sostiene che suo fratello continua a svenire. È fuori nel suo camion, ma non vuole entrare, a meno che non sia lei a visitarlo. Quello che è entrato ha detto che non occorre che le dica il nome, lei avrebbe capito chi sono… Dottor Rutledge?»

Matt pose la sveglia sotto la lampada. Le tre e un quarto. Gemette e si stirò. Una dozzina di punti doloranti del suo corpo protestarono. Aveva terminato i giri di visita alle sette di sera, quindi era corso in palestra per il campionato C A di pallacanestro, dove C A stava per contusioni e abrasioni. Aveva avuto un minuto per il riscaldamento, prima di iniziare, con un gruppo di ultratrentenni, due ore e mezzo di battaglia a tutto campo. Aveva conservato un po’ dell’abilità di quando era stato capitano della squadra del liceo, ma la maggior parte dei contendenti aveva perso qualsiasi finezza avesse mai avuto e l’aveva sostituita con un miscuglio di forza bruta e goffaggine legata all’età. Non fosse stato per i cosiddetti arbitri che s’intromettevano, ogni lunedì e giovedì avrebbero invaso il pronto soccorso.

«Sono sveglio, sono sveglio», ripeté. «Solo sbalordito. Quegli uomini saranno probabilmente due dei fratelli Slocumb.»

«Oh, mio Dio.»

«A quanto pare ha già sentito parlare di loro.»

«Un po’. Vengo da Filadelfia e pensavo che questa storia ‘appalachiana’ fosse stata inventata per scioccarmi. Quanti fratelli sono?»

«Quattro. Può vedere quello che è entrato al pronto soccorso?»

«No. È tornato al camion. Dottor Rutledge, ha un odore tremendo.»

«Non per lui, forse. Ricorda se ha qualche dente?»

«Cosa?»

«Denti. Ne ha?»

«Solo un paio davanti, credo.»

«Allora dovrebbe essere Lewis. Gli dica di portare suo fratello nel pronto soccorso e di lasciarglielo visitare o io, appena arrivo, volterò la moto e tornerò a casa. Sia risoluta. I fratelli Slocumb sono uno più testardo dell’altro. L’unica possibilità che ha è esserlo più di loro. Rispettano chiunque abbia fegato.»

«Oh, quello non mi manca», replicò Jeannie. «Ciò che mi preoccupa è la perdita permanente del senso dell’olfatto.»

«Gli prenda per favore la pressione sanguigna da sdraiato, seduto e, se le pare possa farcela, in piedi.»

«D’accordo.»

«Elettrocardiogramma ed esami di routine se riesce a indurlo a lasciarseli fare. Prelevi inoltre tre unità per la tipizzazione dei gruppi sanguigni, faccia una prova incrociata di compatibilità e si tenga pronta a eseguirne un’altra su altre tre unità.»