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«Ritiene abbia una emorragia?»

«Non ne ho idea. Ma non sarebbero mai venuti al pronto soccorso se la faccenda non fosse molto grave. Distillano liquori in una orrenda baracca dietro casa loro. Mi chiedo se il whisky non gli abbia corroso il rivestimento dello stomaco.»

«Mi metto subito al lavoro. Lei è sveglio, vero?»

«Le probabilità sono a favore», ribatté Matt, tirandosi giù dal letto. «Sarò lì tra quindici minuti.»

Il martellio dietro gli occhi lo spinse a cercare di ricordare quante birre avesse ingollato con gli amici dopo la partita. Non così tante, decise, dato che si era svegliato facilmente, di certo non sufficienti per affrontare lo Slocumb accasciato sul sedile anteriore del camion.

I fratelli Slocumb, Kyle, Lyle, Lewis e Frank, erano tutti sulla cinquantina o appena passata la sessantina. Vivevano insieme dalla nascita nella fattoria che fungeva anche da deposito di robivecchi, un centinaio di acri situati a una decina circa di aspri e boschivi chilometri a nord della città. La madre, deceduta da decenni, era forse l’unica donna che avesse mai messo piede in quella fattoria. Da quando Matt li conosceva, ed era passato molto tempo, gli Slocumb non avevano mai menzionato il padre.

Matt aveva sentito parlare dei «Fratelli Strani» fin dalla prima infanzia. Su di loro circolavano le più disparate dicerie: che erano stravaganti, perversi e addirittura spaventosi. Come la maggior parte dei bambini della zona, a Matt era stato vietato avvicinarsi alla loro casa. Aveva dieci anni, quando uno dei ragazzi più grandi l’aveva sfidato a cercare di ottenere da loro un contributo per la squadra di baseball.

Nessuno dei ragazzi era disposto a oltrepassare la pista sterrata che portava alla fattoria diramandosi dalla stretta strada principale. Uno di loro aveva detto a Matt che la casa si trovava poco più in su. Di fatto, era a più di cinque chilometri. Matt li aveva percorsi un po’ in bicicletta, un po’ a piedi. Davanti alla porta di quella casa sgangherata, aveva esitato, stringendo la lattina per la donazione con tanta forza che aveva temuto d’averla schiacciata. Per calmarsi, aveva poi tratto quel profondo respiro che un giorno avrebbe usato prima di infilare un ago di grosso calibro nel torace di un giovane minatore, e aveva bussato.

Venti minuti dopo era tornato sulla strada sterrata. Nel cestino aveva un sandwich al salame con pane fatto in casa. Al polso un braccialetto creato con chiodi per ferri da cavallo piegati. E nella lattina vi erano due banconote spiegazzate e unte da un dollaro. Prima della fine della giornata, tutto il paese conosceva una o due versioni della storia e suo padre gli aveva tolto per due settimane la paglietta per disobbedienza e gli aveva proibito di avvicinarsi di nuovo a quel luogo. Da quel momento, Matt aveva tenuto segrete le sue visite mensili alla fattoria. Da quando era tornato a Belinda alla fine dell’internato, andava spesso lassù per qualche trattamento medico o semplicemente per chiacchierare. Gli piaceva tutto, o quasi tutto, di ciò che aveva appreso sui quattro uomini nel corso degli anni, anche se nessuno di loro aveva i requisiti necessari per vincere un premio come gran conversatore. Sapeva inoltre che ora vi era un’intera nuova generazione di bambini cui i genitori avevano vietato di avvicinarsi ai Fratelli Strani. E gli Slocumb ne erano ben contenti.

Matt s’infilò un paio di jeans, una camicia a scacchi e gli stivali. Non sarebbe di certo tornato a casa, prima che fosse iniziata la giornata lavorativa.

La busta era sul pavimento accanto alla porta d’entrata. Matt l’aveva calpestata prima di notarla. Era una semplice busta bianca, macchiata qua e là di grasso e sporco. A stampatello e in matita era stato scritto faticosamente «Dr rutlege». Per come si era sentito dopo la partita di pallacanestro e il post-mortem alla Woody’s Tavern, la busta era forse già lì quando era tornato a casa. Accese la luce in soggiorno e l’aprì.

Dottor rutlege

Ai ragione.

C’è veleno sepolto in Monti.

Trovalo atraverso Tunel nel Crepacio.

dà loro la Ricompensa come dovuto.

Firmato

un Amigo premuroso.

Il biglietto ricordava la scrittura di molti montanari, un miscuglio di lettere maiuscole e minuscole, ortografia fonetica e nessuna attenzione alla punteggiatura. Chi l’avesse scritto non importava, di certo importava il fatto che fosse chiaramente dalla parte giusta, dalla sua parte. Con il cuore che gli batteva forte, Matt ripose il biglietto nella busta che infilò nella tasca dei jeans. Con ogni probabilità, questa era l’occasione per cui aveva lavorato tanto.

Il tunnel nel crepaccio.

Matt aveva vissuto in quella zona per buona parte della sua vita, ma non aveva alcuna idea del luogo cui si riferiva il biglietto. Chiunque l’aveva scritto, però, lo conosceva, e di certo lo conoscevano altri. Incoraggiato dalla svolta degli eventi, saltò sulla Harley e si lanciò giù per la collina verso l’ospedale.

Arrestò la motocicletta all’entrata illuminata del pronto soccorso e abbassò il cavalletto. Lo scalcagnato furgone degli Slocumb, parcheggiato lì vicino, era vuoto. Senza alcun particolare motivo, Matt indovinò che chi era svenuto era Kyle, il più estroverso e ostinato dell’eccentrico quartetto Slocumb.

Jeannie Putnam, tuta da sala operatoria rosso cupo e mascherina chirurgica, lo aspettava in un pronto soccorso sorprendentemente affollato. Era una donna alta di circa trent’anni con una buona conoscenza della medicina d’urgenza e una spiccata empatia per i pazienti.

«Le siamo grati di essersi precipitato qui», lo salutò.

«Quale fratello è?»

«Kyle. E lei aveva ragione riguardo all’altro. È Lewis.»

«Le analisi sono già avviate?»

«Kyle si è rifiutato di farsi fare qualsiasi analisi finché non fosse arrivato lei a prescriverlo.»

«Mio Dio.»

«Ma gli ho fatto cambiare idea», soggiunse lei, con una strizzatina d’occhio. «Sono riuscita addirittura a convincerlo a indossare un pigiama. È proprio carino, a modo suo.»

«Dovrebbe vedere la stanza in cui dormono. ‘Carino’ non è il primo aggettivo che le verrebbe in mente. Sono comunque contento che lei apprezzi un po’ del suo charme. Che ha richiesto?»

«Il solito, un esame emocromocitometrico completo, Chem 12, più la prova crociata. Mi spieghi perché l’ha richiesta?»

Matt alzò le spalle e scrollò la testa. «Non lo so. Non ho mai dovuto curare Kyle per problemi medici. Qualcosa che lei mi ha detto sui suoi ripetuti svenimenti mi ha suggerito una bassa pressione sanguigna, per cui ho pensato che forse si tratta di emorragia interna.»

«Se la sua diagnosi, fatta per telefono alle tre di notte, fosse esatta, avrei paura di lei.»

«Non sarebbe la prima», ribatté Matt.

Assolutamente ridicolo nel suo pigiama con motivo cachemire, il brizzolato Kyle Slocumb, il più giovane dei fratelli, fece un cenno di approvazione nel vederlo entrare dalla porta. Lewis Slocumb, che raramente pronunciava una parola in più, era seduto in un angolo, mezzo addormentato. Matt si avvicinò al letto e iniziò a visitare Kyle, mentre lo interrogava.

«Allora, Kyle, qual è il problema?»

Pelle scolorita, linee del palmo scolorite, letti ungueali scoloriti. Jeannie potrebbe avere ragione ad avere paura di me, pensò. Un’anemia era già in cima alla lista delle possibilità.

«Mi sono alzato per pisciare e ho avuto le vertigini, dottore. Lewis dice che sono svenuto, ma lui tende a esagerare.»

«Nessun dolore?»

Pulsazioni rapide, deboli.