— Per matto? Mio Dio — cercò di sorridere. — Non hai capito niente, amico, proprio niente… Quella sarebbe una liberazione! Se avesse pensato che si trattava di pazzia, non avrebbe fatto quel che ha fatto. Vivrebbe…
— Allora, ciò che hai scritto nella relazione è falso?
— Ma certo!
— Perché non scrivi la verità?
— Perché…? — ripeté.
Cadde il silenzio. Di nuovo brancolavo nel buio, non capivo niente; per un momento avevo pensato di riuscire a convincerlo che, con la buona volontà di entrambi, saremmo riusciti a risolvere l’enigma. Perché non voleva parlare?
— Dove sono gli automi? — domandai.
— Nei magazzini. Li abbiamo chiusi lì tutti, eccetto quelli in servizio all’aeroporto.
— Perché?
Di nuovo non rispose.
— Non vuoi dirmelo?
— Non posso.
C’era, in questo, qualcosa che non riuscivo ad afferrare.
Forse era meglio andare da Sartorius? Mi ricordai del foglietto, che subito mi parve della massima importanza.
— Come ti immagini il nostro lavoro in queste condizioni? — domandai.
Alzò le spalle con indifferenza. — Che importanza può avere?
— Ah, è così? Allora, che cosa pensi di fare?
Rimase muto. Nel silenzio si udirono dei passi di piedi nudi. Tra strumenti plastificati e nichelati, tra gli alti stipi pieni di congegni elettronici, vetri, apparecchi di precisione, quell’eco attutita di un passo indolente suonava come lo scherzo di qualche mattoide. I passi si avvicinavano. Mi alzai, guardando con la massima attenzione Snaut. Tendeva l’orecchio, con gli occhi socchiusi, ma non sembrava spaventato. Allora non era di lei che aveva paura?
— Da dove salta fuori? — domandai. Indugiava a rispondermi. — Non vuoi dirmelo?
— Non lo so.
— Bene.
Il rumore di passi si allontanò e si spense.
— Non mi credi? — disse. — Ti do la mia parola che non lo so.
In silenzio aprii l’armadio delle tute spaziali e cominciai a spostarle, spingendo da parte gli involucri pesanti e vuoti.
Come mi aspettavo, trovai appese ad alcuni ganci le pistole a gas, che servivano a muoversi in condizioni di assenza di gravità. Non erano un granché, ma pur sempre armi. Meglio di niente. Controllai il caricatore e misi a tracolla le cinghie della fondina.
Snaut mi guardava attento. Mentre regolavo la lunghezza della cinghia, mostrò in un sorriso sarcastico i denti gialli.
— Buona caccia — disse.
— Grazie mille — replicai avviandomi verso la porta. Si alzò dalla poltrona.
— Kelvin!
Lo guardai. Non sorrideva più. Non ricordavo di avere mai visto una faccia così stanca.
— Kelvin, non è… io… veramente, non posso.
Aspettai che mi dicesse ancora qualcosa, ma muoveva solo le labbra senza che ne uscisse alcun suono.
Mi girai e uscii, senza una parola.
4. SARTORIUS
Il corridoio era vuoto. All’inizio correva dritto, poi svoltava a destra. Non ero mai stato nella stazione, ma per sei settimane, sulla Terra, avevo vissuto per addestramento all’interno di una sua ricostruzione che si trovava nell’Istituto. Sapevo dove portava la scaletta d’alluminio. La biblioteca non era illuminata. Trovai l’interruttore a tentoni. Il primo volume dell’ Annuario di Solaristica con l’Appendice, non c’era. Controllai nel registro la posizione del libro: era da Gibarian, e così pure il Piccolo apocrifo.
Spensi la luce e scesi la scala. Nonostante avessi udito i passi allontanarsi poco prima, avevo paura di entrare nella cabina di Gibarian. Poteva essere tornata. Per un momento rimasi fermo davanti alla porta, poi, stringendo i denti, mi feci forza ed entrai.
La stanza illuminata era vuota. Incominciai a rovistare tra i libri sparsi per terra, davanti alla finestra; a un tratto mi avvicinai all’armadio e lo chiusi. Non sopportavo la vista di quel vuoto fra le tute. Il testo che cercavo non si trovava lì. Mi misi allora a spostare metodicamente tutti i libri, un volume alla volta, fino a che non lo scovai nell’ultimo gruppo, una pila tra il letto e l’armadio.
Nutrivo la speranza di scoprire qualche indizio, e in realtà c’era un segnalibro tra le pagine dell’indice dei nomi, dove, a matita rossa, era sottolineato un nominativo che non mi diceva niente: André Berton. Aveva due diversi rinvii. Guardai al primo riferimento e seppi che Berton era il pilota di riserva della nave di Shannahan.
La notizia successiva su di lui si trovava circa cento pagine più avanti. Subito dopo l’atterraggio, la spedizione si era mossa con estrema prudenza; ma dopo sedici giorni, visto che l’oceano plasmatico non solo non dava segni di aggressività ma si ritirava davanti a ogni oggetto che si avvicinasse e, per quanto poteva, cercava di evitare il contatto diretto con le apparecchiature e gli uomini, Shannahan e il suo assistente Timolis tralasciarono alcune misure regolamentari di sicurezza che intralciavano o rallentavano i lavori.
La spedizione si suddivise in piccoli gruppi, di due o tre persone, ognuno dei quali volava talvolta per alcune centinaia di chilometri sull’oceano; gli schermi radianti, che erano stati piazzati a difesa del terreno di lavoro, furono riportati in deposito alla base. I primi quattro giorni dopo questo cambiamento di metodo trascorsero senza incidenti, a parte alcuni inconvenienti agli autorespiratori a ossigeno delle tute spaziali, le cui valvole risultarono sensibili all’azione corrosiva dell’atmosfera tossica, e perciò si rese necessario cambiarle ogni giorno.
Il quinto giorno, ventunesimo dall’atterraggio, due scienziati, Carucci e Fechner (il primo un radiobiologo, l’altro un fisico), partirono in volo di ricognizione sull’oceano con un piccolo veicolo a due posti.
Non era un aeromobile: scivolava su un cuscino d’aria.
Poiché dopo sei ore non erano ancora tornati, Timolis, che dirigeva la base in assenza di Shannahan, diede l’allarme e mandò tutti gli uomini disponibili a cercarli.
Quel giorno, per fatale coincidenza, il collegamento radio si interruppe circa un’ora dopo la partenza dei gruppi di ricognizione; ne fu causa un’immensa macchia rossa sul sole, che bombardava di fortissime radiazioni corpuscolari gli strati superficiali dell’atmosfera. Funzionavano solo gli apparecchi a onde ultracorte, che permettevano di comunicare a una distanza massima di una trentina di chilometri. A peggiorare le cose, prima del tramonto del sole, la nebbia si infittì a tal punto che le ricerche dovettero essere sospese.
Mentre i gruppi di salvataggio tornavano alla base, uno di loro avvistò il veicolo a centoventi chilometri dalla costa.
Il motore funzionava ancora e l’apparecchio, che non appariva danneggiato, si sollevava sulle onde. Nella cabina trasparente c’era solo una persona, un uomo semisvenuto. Era Carucci.
L’aeromobile fu trasportato alla base e Carucci ricevette le debite cure mediche; la sera stessa riprese conoscenza. Non ricordava niente di quel che era accaduto se non che, proprio quando avevano deciso di tornare, si era sentito soffocare. La valvola del suo apparecchio si bloccava dopo ogni aspirazione e una piccola quantità di gas tossico penetrava ogni volta all’interno.
Fechner, nel tentativo di riparare l’apparecchio di Carucci, aveva dovuto slacciare le cinture e alzarsi. Era l’ultima cosa che Carucci ricordasse.
Questo il presumibile svolgimento dei fatti, secondo la ricostruzione degli esperti: per riparare l’apparecchio di Carucci, Fechner doveva avere aperto il tetto della cabina, poiché i movimenti gli erano impediti dalla cupola molto bassa. Era ammissibile, poiché la cabina di questi apparecchi non è stagna e serve solo come riparo dagli agenti atmosferici e dal vento. Durante tali manovre doveva essersi prodotta un’avaria nell’apparecchio di Fechner, che, in stato confusionale, era probabilmente uscito dall’abitacolo attraverso l’apertura della cupola, arrampicandosi sulla fusoliera, e quindi era caduto nell’oceano.