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Questa è la storia della prima vittima. La ricerca del corpo — che avrebbe dovuto galleggiare sulle onde, dentro la tuta — non diede alcun risultato. Forse era rimasto davvero a galla, ma trovarlo in mille chilometri quadrati di quel deserto ondeggiante, costantemente coperto da strati di nebbia era un’impresa che superava le possibilità della spedizione.

Prima del tramonto — torno ai fatti precedenti — tutti gli apparecchi di salvataggio erano rientrati, eccetto il più grande, l’elicottero per il trasporto merce con il quale era uscito in volo Berton.

Si presentò alla base quasi un’ora dopo il tramonto, quando già si pensava seriamente che fosse perduto. Berton scese in evidente stato di shock; uscì dall’apparecchio da solo, e poi cominciò a correre qua e là; quando lo trattennero, prese a gridare e piangere. Una cosa stupefacente per un uomo che aveva alle spalle diciassette anni di navigazione spaziale, a volte in condizioni difficilissime.

I medici supposero che fosse rimasto intossicato dall’atmosfera del pianeta. Due giorni dopo parve che Berton avesse ritrovato un apparente equilibrio: non voleva però lasciare, nemmeno per un attimo, l’interno del razzo principale della spedizione, né avvicinarsi a un portello dal quale si vedesse l’oceano; dichiarò solo che voleva dettare un rapporto sul suo volo. Insisteva, dicendo che era un fatto della massima importanza. Questo rapporto, dopo essere stato esaminato dal consiglio della spedizione, fu giudicato frutto di un cervello colpito da intossicazione da gas atmosferici, e che non riguardasse il pianeta, ma il decorso della malattia di Berton.

La faccenda terminò lì.

Questo diceva l’Appendice. Era lecito pensare che il nocciolo della questione si potesse trovare nel rapporto stesso di Berton: che cosa aveva portato al collasso nervoso quel pilota, veterano di numerosi voli spaziali? Tornai a rovistare fra i libri, ma non riuscii a trovare il Piccolo apocrifo. Ero sempre più stanco; rimandai le ricerche al giorno successivo e lasciai la cabina. Nel passare accanto alla scaletta di alluminio notai per terra delle chiazze di luce che provenivano dall’alto. Segno che Sartorius stava lavorando ancora. Pensai che avrei dovuto vederlo.

Al piano superiore faceva un po’ più caldo. Nell’ampio e basso corridoio si sentiva una lieve corrente d’aria, le striscioline di carta sventolavano sopra le bocche del condizionatore. Una grossa lastra di vetro smerigliato, tenuta da un telaio metallico, costituiva la porta dell’ingresso principale del laboratorio centrale. Dall’interno il vetro era coperto con qualcosa di scuro; la luce filtrava solo dagli spiragli piccoli e stretti sotto il soffitto.

Spinsi la maniglia. Come prevedevo, la porta non cedette.

All’interno regnava il silenzio, si udiva solo, ogni tanto, un rumore simile al fischio sommesso di un becco a gas. Bussai: nessuna risposta.

— Sartorius! — chiamai. — Dottor Sartorius! Sono io, Kelvin, quello nuovo! Devo vederla. Per favore, mi apra la porta!

Si sentì un leggerissimo fruscio, come se qualcuno camminasse sulla carta, e di nuovo silenzio.

— Sono io, Kelvin! Avrà sentito parlare di me! Sono arrivato a bordo del Prometheus qualche ora fa! — gridai, avvicinando le labbra al punto dove la porta toccava lo stipite metallico. — Dottor Sartorius! Qua non c’è nessuno, ci sono solo io! Mi apra.

Ancora silenzio. Poi un lieve fruscio. Qualche tintinnio molto chiaro, come se una persona mettesse in ordine utensili metallici su un vassoio di ferro. Rimasi impietrito di colpo; dall’interno mi giungeva una serie di passi, come il camminare di un bambino: era un rapido, tenue passo di piccoli piedi.

O… o qualcuno lo imitava abbastanza bene, tamburellando abilmente con le dita sopra una scatola vuota, risonante.

— Dottor Sartorius! — gridai. — Mi apre o no?

Nessuna risposta, e di nuovo quel trotterellio infantile e, contemporaneamente, qualche passo svelto di uomo, ma in punta di piedi… Ma, se camminava, come poteva imitare un passo infantile? «D’altronde» pensai, incapace di dominare più a lungo la rabbia che cominciava a invadermi «che me ne importa!» Ed esplosi.

— Dottor Sartorius! Non ho volato sedici mesi per fermarmi di fronte alle vostre commedie! Conto fino a dieci. Poi faccio saltare la porta!

Ne dubitavo. La reazione a getto della pistola a gas non è molto potente, ma ero deciso a mettere in atto la mia minaccia, in un modo o nell’altro, anche a costo di andare a cercare un paio di cariche esplosive, che certamente non mancavano nei magazzini. Mi dissi che non potevo concedermi il lusso di arrendermi, cioè che non potevo continuare a giocare una partita di pazzi, con le carte truccate che la situazione mi aveva messo in mano.

Si sentì un rumore come se qualcuno lottasse o spingesse qualcosa; la tenda centrale si scostò forse di mezzo metro, un’ombra snella cadde sulla lastra opaca, come coperta di brina, e una voce leggermente rauca parlò: — Aprirò; ma lei deve promettermi che non entrerà.

— E allora perché apre? — gridai.

— Le verrò incontro.

— Bene. Prometto.

Si udì il leggero scatto della chiave girata nella serratura, poi una figura scura, che copriva metà porta, chiuse attentamente la tendina, di nuovo si svolsero alcune manovre strane; udii uno stridore, come se venisse spostato un armadietto di legno, finalmente la lastra chiara si aprì di quel tanto che bastava a far sgusciare Sartorius nel corridoio. Si piazzò davanti alla porta, coprendola con la sua persona.

Era sproporzionatamente alto e magro. Sotto la maglia color crema il suo corpo sembrava fatto di sole ossa. Aveva al collo un fazzoletto nero; dalle spalle gli penzolava il camice protettivo da laboratorio, bruciato dai reagenti. Teneva piegata da una parte la testa straordinariamente stretta. Gli occhiali scuri gli coprivano quasi mezza faccia, così che non potevo vedere i suoi occhi. Aveva la mandibola lunga, le labbra livide e grandissime orecchie azzurrastre, come se fossero state congelate. Non era rasato. Dai polsi pendeva un paio di guanti rossi di gomma antiradiazioni, appesi ai lacci.

Rimanemmo un po’ a guardarci reciprocamente con non celata avversione. I suoi radi capelli (sembrava che se li fosse tagliati da sé, con la macchinetta, a spazzola) erano color piombo; il pelo della barba era completamente bianco. La fronte era abbronzata, come quella di Snaut; ma l’abbronzatura finiva a metà altezza, come una linea di livello. Probabilmente usava sempre un cappello per stare al sole.

— Ascolto — disse infine. Mi sembrò che non gli importasse molto di quel che avevo da dirgli, ma, viceversa, che spiasse con molta ansia ciò che aveva lasciato dietro di sé, restando con la schiena appoggiata alla lastra di vetro. Per un attimo non seppi come rispondere, per non dire una stupidaggine.

— Mi chiamo Kelvin… dovrebbe avere già sentito il mio nome. Sono, voglio dire… sono stato l’assistente di Gibarian.

Il suo volto magro, tutto coperto di rughe, era privo di espressione. Sembrava quello di don Chisciotte. Avevo difficoltà a parlargli a causa degli occhiali scuri che indossava.

— Ho saputo che Gibarian… è morto. — La mia voce restò sospesa.

— Sì, l’ascolto… — disse impaziente.

— E’ stato un suicidio? Chi ha trovato il suo corpo, lei o Snaut?

— Perché per questo lei si rivolge a me? Il dottor Snaut non le ha spiegato…?

— Volevo sapere che cosa lei avesse da dirmi…

— Lei è uno psicologo, dottor Kelvin?

— Sì, perché?

— Scienziato?

— Sì. Ma a che proposito…

— Avrei detto che lei fosse un funzionario o un agente della polizia criminale. Adesso sono le due e quaranta, e lei, invece di cercare di inserirsi nel lavoro che si svolge alla stazione, non contento dei modi brutali con i quali ha cercato di introdursi nel mio laboratorio, mi interroga come se fossi un individuo sospetto.