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Mi dominai con uno sforzo che mi fece sprizzare il sudore sulla fronte.

— Lei è sospetto, Sartorius! — dissi con voce soffocata. Volevo colpirlo a tutti i costi, perciò aggiunsi, rapido: — E lo sa perfettamente.

— Se lei non mi presenta immediatamente le sue scuse e non ritira ciò che ha detto, faccio un rapporto radio, Kelvin!

— Perché dovrei chiederle scusa? Per il fatto che, invece di ricevermi, e di farmi entrare, e spiegarmi quel che succede, lei si chiude barricandosi nel laboratorio? Ma lei ha forse perso completamente il cervello? Chi è lei, insomma! Uno scienziato o un povero vigliacco? Me lo dica, è in grado di rispondermi?

Non sapevo nemmeno che cosa stessi gridando. Lui non si mosse. La pelle pallida e piena di pori era imperlata di grosse gocce di sudore. Di colpo mi resi conto che non mi ascoltava affatto, non mi aveva sentito. Nascondeva entrambe le mani dietro di sé e, con tutte le sue forze, tratteneva la porta: questa vibrava leggermente, come se qualcuno facesse forza dall’interno.

— Se… ne… vada… — disse con voce bizzarra, stridula. — Per l’amor di Dio… se ne vada! Scenda sotto, verrò, farò tutto quello che vuole, ma se ne vada!

La sua voce esprimeva chiaramente un tale tormento che io, del tutto sbalordito, feci meccanicamente l’atto di alzare la mano per aiutarlo a trattenere la porta, poiché si vedeva che stentava a farlo; ma proprio allora lanciò un urlo orrendo, neanche gli avessi puntato addosso un coltello. Cominciai a retrocedere, mentre lui continuava a urlare in falsetto:

— Va’ via, va’ via — e poi ancora: — Ritorno! Ritorno! Torno subito! No, no!

Scostò la porta e si lanciò dentro; mi parve di vedere che all’altezza del suo petto passasse rapidamente una cosa dorata, come un disco brillante; dal laboratorio mi giunse un rumore sordo, la tenda si scostò da un lato, un’ombra alta si profilò sullo schermo di vetro, la tenda tornò al suo posto e non si vide più niente.

Che cosa succedeva, là dentro? Si udirono dei passi, una corsa pazza che si concluse con un terribile fracasso di vetri infranti; sentii un suono, come di un bambino che ride a crepapelle…

Mi tremavano le gambe; mi guardai intorno. Era sceso il silenzio. Sedetti sul davanzale in plastica della finestra. Rimasi lì per una quindicina di minuti, aspettando qualcosa, non so, forse ero arrivato alla disperazione, e per questo non volevo muovermi. La testa mi scoppiava. Sopra di me udii un cigolio prolungato e contemporaneamente la luce nell’ambiente divenne più intensa.

Dal mio posto vedevo solo una parte del corridoio che correva tutt’intorno al laboratorio. Questo ambiente si trovava nella parte superiore della stazione, all’interno dello scudo dell’involucro; perciò le pareti risultavano concave e inclinate, con finestre simili a feritoie, a una distanza di qualche metro l’una dall’altra; le serrande a saracinesca si erano alzate, la giornata del sole azzurro giungeva alla fine. Uno splendore accecante entrava dagli spessi vetri. In ogni listello di nichel, in ogni maniglia, brillava un piccolo sole. La porta di accesso al laboratorio — quella enorme lastra di vetro — ardeva come un braciere. Guardai le mie mani appoggiate sulle ginocchia, grigie in quella luce spettrale. Nella destra tenevo la pistola a gas; non mi ero accorto di averla estratta dalla fondina.

La rimisi al suo posto. Sapevo che non mi sarebbe bastata nemmeno una pistola a raggi gamma; che cosa avrei potuto fare? Distruggere la porta? Invadere il laboratorio? Mi alzai.

Sprofondando nell’oceano, simile a un’esplosione all’idrogeno, il disco mi rinviò un fascio di raggi paralleli quasi tangibile; quando raggiunsero la mia guancia (scendevo giù per la scaletta) fu come la bruciatura di un ferro rovente. A metà scala ci ripensai e tornai su. Controllai tutt’intorno al laboratorio. Come ho detto, il corridoio lo circondava: dopo cento passi, mi trovai davanti a un’altra porta di vetro simile a quella di prima. Non provai ad aprirla, sapevo che era chiusa.

Cercavo qualche finestrino nella parete in plastica, qualche fessura; il pensiero di spiare Sartorius non mi sembrava affatto ignobile. Volevo smetterla con le supposizioni e conoscere la verità, ma non riuscivo a figurarmi come fare. Mi venne in mente che il laboratorio era illuminato dai portellini posti sul soffitto, ciò significava che si aprivano nella corazza superiore; se fossi riuscito a raggiungere l’esterno, avrei potuto guardare dentro. Per fare questo dovevo scendere al piano inferiore per prendere la tuta e l’autorespiratore a ossigeno. Mi ero fermato davanti alla scala, rimuginando se ne valesse la pena. Era molto probabile che i portellini fossero chiusi con vetri opachi, ma che altro mi rimaneva da tentare?

Scesi al piano di mezzo. Dovetti passare davanti alla cabina radio. La porta era spalancata. Snaut stava ancora come l’avevo lasciato, nella poltrona. Dormiva. Udendo i miei passi si mosse e aprì gli occhi.

— Salve, Kelvin! — disse con voce arrochita.

Rimasi zitto.

— Sei riuscito a sapere qualcosa? — domandò.

— Sì — risposi tranquillamente. — Non è solo.

Fece una smorfia. — Ma guarda! E’ già qualcosa. Ha ospiti, dici?

— Non capisco perché non volete parlarmi. Poiché sono destinato a rimanere qua, prima o poi verrò a saperlo — dissi quasi involontariamente. — E allora, perché tutti questi misteri?

— Lo capirai quando avrai degli ospiti — mi disse. Sembrava che non gradisse la mia presenza e non avesse voglia di chiacchierare.

— Dove vai? — chiese, quando mi mossi. Non risposi. La rimessa dell’aeroporto era nelle identiche condizioni in cui l’avevo lasciata. La mia capsula bruciacchiata era ancora ritta lì, soprelevata e vuota. Mi avvicinai al ripostiglio delle tute spaziali e di colpo mi passò la voglia di quella scappatella sulla superficie della corazza. Girai sui tacchi e, per una scaletta a chiocciola, scesi nei depositi.

L’angusto corridoio era pieno di bombole e di casse impilate. Le pareti nude, metalliche, mandavano un riflesso azzurro livido. Ancora qualche decina di passi e vidi sotto la volta le tubature dell’impianto di congelamento coperte di brina bianca. Le seguii. Andavano a finire in un manicotto con un grosso collare di protezione, e attraverso di esso passavano in un locale a chiusura ermetica. Quando aprii la porta, che aveva guarnizioni di gomma larghe due palmi, m’investì un gelo che mi penetrò fin nelle ossa. Rabbrividii. Dal groviglio delle serpentine coperte di brina pendevano i ghiaccioli. E anche qui c’erano casse e contenitori, velati da uno strato gelato; gli scaffali lungo le paratie erano pieni di scatolame e di grasso in cubi gialli avvolti in plastica trasparente. Di fronte, sul fondo, la volta a botte si abbassava. Lì era appesa una tenda di stoffa pesante, che luccicava per gli aghi di ghiaccio che vi si erano formati. Ne scostai un lembo.

Su un lettino a rete d’alluminio giaceva, coperta da un tessuto grigio, una forma oblunga.

Alzai un orlo del telo e vidi il volto cereo di Gibarian. I capelli, neri con una ciocca bianca, aderivano lisci al cranio. La laringe sporgeva e sembrava sul punto di bucare la gola. Gli occhi spenti guardavano fissi la volta, all’angolo di una palpebra si era formato un ghiacciolo opaco. Il freddo che mi avvolgeva mi faceva tremare a tal punto che dovevo fare un enorme sforzo per non battere i denti. Senza lasciare la coperta, con l’altra mano toccai la sua guancia. Era come toccare un legno secco. La pelle era ruvida, irta di peli corti. Una piega che esprimeva un’infinita e sprezzante pazienza era congelata sulle sue labbra. Nel lasciar ricadere l’orlo del tessuto, vidi che da sotto le pieghe sporgevano delle perle o fave nere e allungate, in ordine di grandezza decrescente. Mi irrigidii di colpo.