Erano dita di piedi scalzi, che vedevo dalla parte della pianta; i polpastrelli ovali erano lievemente divaricati. Sotto il lembo rigonfio del sudario c’era la donna nera, appiattita contro il corpo del morto. Sembrava riposare bocconi, come immersa nel sonno. Centimetro per centimetro scostai il grosso tessuto. La testa ricoperta di capelli crespi, intrecciati a ciuffetti, era appoggiata sul braccio nero. La pelle lucida della schiena era tirata sulle vertebre della spina dorsale.
Nessun movimento animava quel corpo immenso.
Ancora una volta guardai la pianta dei suoi piedi e mi colpì una stranezza: non si erano appiattiti sotto il gran peso che dovevano sopportare, non si erano incalliti con il camminare scalzi, la pelle che li copriva era fine come quella della schiena e delle mani.
Dominai un fremito e mi piegai per toccarli; ma ciò mi risultò più difficile che toccare il cadavere. Quando vi appoggiai la punta delle dita accadde un fatto incredibile; il corpo, a una temperatura ambiente di 20 gradi sotto zero, era vivo, e si mosse. Ritirò la gamba come potrebbe fare un cane che dorme, quando lo si prende per una zampa.
«Qui gelerà» pensai; ma il corpo era calmo e non freddo; avevo ancora sulla punta delle dita la sensazione di morbidezza della sua pelle. Arretrai fin oltre la tenda, la lasciai ricadere e tornai nel corridoio.
Il caldo che mi accolse mi sembrò infernale. Le scale mi ricondussero nella rimessa dell’aeroporto. Sedetti sopra un mucchio di paracadute arrotolati, chiusi nei loro anelli, e mi presi la testa tra le mani. Mi sentivo abbattuto. Non capivo quello che mi succedeva. Ero distrutto, i miei pensieri scivolavano verso un abisso, col pericolo di precipitarvi; ma la perdita della ragione o l’annientamento mi sembravano una grazia irraggiungibile e ineffabile.
Non avevo bisogno di andare da Snaut o Sartorius, mi pareva che nessuno sarebbe riuscito a figurarsi ciò che avevo provato, visto, toccato con le mie stesse mani. L’unica via di scampo, l’unica spiegazione sembrava essere la diagnosi di follia. Dovevo essere impazzito subito dopo l’atterraggio.
L’oceano si era impadronito del mio cervello, soffrivo di un’allucinazione dietro l’altra; se così era, non dovevo sprecare energie in vani tentativi di risolvere enigmi che non esistevano in realtà, ma chiedere soccorso medico, mandare per radio un S.O.S. al Prometheus o a un’altra nave.
Accadde a questo punto l’impensato: l’idea che fossi pazzo mi calmò.
Ora capivo perfettamente le parole di Snaut, sempre ammesso che Snaut esistesse realmente e che gli avessi parlato, poiché le allucinazioni potevano essere cominciate prima.
Forse ero ancora a bordo del Prometheus, colpito all’improvviso da malattia mentale, e quel che avevo veduto era una creazione della mia mente turbata. In tal caso, cioè se ero malato, potevo curarmi, e ciò mi consentiva almeno una speranza di salvezza: una salvezza che non ero riuscito a trovare nei tentativi condotti nelle ore precedenti.
Dovevo dunque eseguire una prova generale, un esperimento logico — experimentum crucis — che mi dimostrasse se veramente ero impazzito o vittima della mia fantasia, oppure se, per quanto assurde e improbabili, le mie esperienze erano reali.
Mentre sedevo a rimuginare in preda a questi pensieri, osservavo il basamento della struttura portante della rimessa spaziale. Era un pilone d’acciaio che saliva dal pavimento, fasciato di lastre curve di un colore verde pallido. In alcuni punti la vernice era venuta via, sicuramente a causa dello sfregamento dei carrelli portarazzi che passavano da lì. Toccai l’acciaio, lo scaldai per un momento con la palma della mano. Picchiai l’orlo piatto del rinforzo. Era possibile che un’illusione raggiungesse un simile grado di realtà? Forse sì, mi risposi. In fin dei conti era il mio campo, lo conoscevo bene.
Era possibile inventare un esperimento chiave? «No» mi dissi inizialmente «poiché il mio cervello malato (ammesso che sia realmente malato) produrrà sempre le immagini che io gli chiederò.» Non solo nella malattia, ma anche nel sogno più normale, capita di parlare con persone sconosciute, e facciamo domande alle quali questi esseri immaginari danno risposte che noi udiamo. Sebbene queste persone, in realtà, siano solo creazioni della nostra stessa attività psichica, personificazione effimera e pseudoindipendente di parti della nostra psiche, fino a quando non ci rispondono noi non sappiamo quali parole usciranno dalle loro labbra. Ma sono effettivamente parole preparate da una zona particolare del nostro cervello, e dovremmo già conoscerle nell’attimo stesso in cui le inventiamo per metterle sulle labbra dei personaggi fittizi.
Qualsiasi cosa progettassi o attuassi, c’era sempre la possibilità che mi stessi comportando esattamente come accade nel sonno. Poiché sia Snaut sia Sartorius forse non esistevano in realtà, sarebbe stato del tutto inutile rivolgere a loro domande di alcun genere.
Pensai che avrei potuto assumere qualche farmaco, forse una sostanza eccitante, per esempio il peyotl, o un preparato capace di provocare visioni e allucinazioni. Se anche sotto l’effetto di quelle sostanze si fossero ripetuti i fenomeni, avrei avuto la dimostrazione che erano reali e facevano materialmente parte dell’ambiente. Ma no, pensai poi, non sarebbe stato questo il corretto esperimento chiave, poiché sapevo come agiva la sostanza che avrei preso, e l’assumere il farmaco e i suoi stessi effetti sarebbero potuti essere frutto della mia immaginazione…
Mi sembrava di essere ingabbiato in un circolo vizioso di pazzia e di non poterne uscire. Possiamo pensare solo col nostro cervello, non ci possiamo vedere dall’esterno per controllare i processi che si svolgono nel nostro corpo… di colpo mi venne un’idea, semplice ma efficace.
Mi alzai di scatto dal mucchio dei paracadute e corsi verso la cabina radio. Era vuota. Diedi un’occhiata all’orologio elettrico sulla parete. Erano quasi le quattro di notte, la notte convenzionale all’interno della stazione; fuori splendeva l’alba rossa. Misi in funzione l’apparecchio radio per collegamenti a lunga distanza e, mentre aspettavo che si scaldassero le valvole, ancora una volta cercai di ripassare mentalmente con precisione ogni fase del particolare esperimento.
Non ricordavo quale fosse il nominativo per la chiamata della stazione radio automatica del satellite in orbita attorno a Solaris, però lo trovai su una tabella appesa sopra il quadro di comando. Chiamai usando l’alfabeto Morse, e dopo otto minuti ebbi la risposta. Il satellite, o meglio il suo cervello elettronico, si annunciò con un segnale ritmico ripetuto.
Chiesi allora che mi comunicasse ogni venti secondi i meridiani interstellari della galassia che tagliava nel girare intorno a Solaris, precisando fino alla quinta cifra decimale.
Poi sedetti e aspettai la risposta. Arrivò dopo dieci minuti.
Tolsi il nastro di carta su cui era impresso il risultato e lo misi nel cassetto (badando bene a non dargli nemmeno un’occhiata); presi dalla biblioteca le colossali mappe celesti, le tabelle di logaritmi, l’almanacco del movimento quotidiano dei satelliti, qualche manuale, dopo di che mi misi a cercare la risposta alla stessa domanda. Passai circa un’ora per risolvere le espressioni; non ricordavo quando era stata l’ultima volta in cui avevo fatto tali e tanti calcoli, credo fosse stato durante l’esame di astronomia pratica.
Feci i conti sul calcolatore della stazione. Il mio ragionamento suonava in questo modo: riferendomi alle carte astronomiche, avrei dovuto ottenere cifre che non coincidevano esattamente con quelle che avevo ricevuto dal satellite.
L’approssimazione era dovuta al fatto che il satellite era soggetto a complicatissime variazioni sotto l’influsso delle forze di gravità di Solaris, non solo per i due soli che si avvicendavano, ma anche per i cambiamenti locali di peso provocati dall’oceano. «Quando avrò le due colonne di cifre» pensavo «quella fornita dal satellite e quella calcolata teoricamente in base alla carta celeste, inserirò nei miei calcoli alcune correzioni; allora entrambi i gruppi di risultati dovrebbero coincidere fino alla quarta cifra decimale; la differenza si verificherà alla quinta, e sarà quella provocata dal movimento, non calcolato, dell’oceano.