«Se queste cifre fornite dal satellite non fossero reali, ma solamente frutto della mia mente smarrita, allora non potrebbero coincidere con la seconda colonna di dati numerici. Il mio cervello» mi dicevo «è forse malato, ma non può essere capace — in nessuna condizione — di rivaleggiare, nel fare i conti, col grande calcolatore della stazione: occorrerebbero mesi di tempo. Quindi, se le cifre coincideranno… il grande calcolatore esisterà realmente, e io lo avrò usato, concretamente e non nel delirio.»
Mi tremavano le mani mentre toglievo dal cassetto il nastro di carta radiotelegrafica e lo srotolavo accanto all’altro, più largo, proveniente dal calcolatore. Entrambe le file di cifre tornavano, come avevo previsto, fino al quarto decimale.
Le variazioni avvenivano con il quinto.
Ficcai tutte le carte nel cassetto. Così era, dunque. Il calcolatore esisteva indipendentemente da me. E ciò dimostrava la realtà dell’esistenza della stazione e di tutto quel che conteneva.
Stavo già per richiudere il cassetto quando mi accorsi che era zeppo di fogli, coperti di calcoli febbrili. Li tirai fuori, e al primo sguardo capii che qualcun altro aveva fatto un esperimento simile al mio. Con questa sola differenza: che invece di chiedere al satellite i dati relativi ai meridiani, si era fatto dare la misurazione dell’albedo di Solaris a intervalli di quaranta secondi.
Non ero pazzo. L’ultima speranza si dileguava. Spensi il trasmettitore, bevvi il resto del brodo contenuto nel thermos e andai a dormire.
5. HAREY
Il muto accanimento nel fare i calcoli mi aveva tenuto sveglio. Adesso, completamente spossato dalla stanchezza, non ero più neanche capace di tirar giù il letto rialzabile; invece di sganciare i fermi superiori, mi appesi alla maniglia, col risultato che il letto mi venne addosso di colpo. Riuscito infine ad abbassarlo e sistemarlo, buttai vestiti e biancheria appallottolati sul pavimento e mi lasciai cadere semisvenuto sul cuscino; non l’avevo nemmeno gonfiato bene. Mi addormentai, senza accorgermene, con la luce accesa.
Nell’aprire gli occhi, ebbi l’impressione di avere dormito appena pochi minuti. La stanza era immersa in un tenue bagliore rossastro. Ero fresco e mi sentivo bene. Stavo sdraiato nudo e senza coperte. Di fronte a me, la tenda era scostata fino a metà, sulla finestra, e nella luce del sole rosso era seduto qualcuno. Era Harey, in un vestito bianco da spiaggia; teneva le gambe accavallate, aveva i piedi scalzi, i capelli neri pettinati all’indietro, e il tessuto dell’abito leggero si tendeva sui suoi seni. Lasciando penzolare le braccia abbronzate fino al gomito, mi guardava fisso, di sotto le lunghe ciglia.
La contemplai a lungo, tranquillo. Il mio pensiero fu:
«Com’è bello un sogno così, quando si sa di sognare». Ma avrei preferito che svanisse. Chiusi gli occhi, augurandomelo intensamente, ma quando li riaprii era seduta davanti a me come prima. Teneva, come suo solito, le labbra socchiuse, quasi fosse in procinto di mettersi a fischiettare, ma lo sguardo era senza sorriso. Rammentai tutte le mie elucubrazioni a proposito dei sogni, prima di addormentarmi. Era tale quale l’avevo veduta per l’ultima volta. Aveva solo diciannove anni in quel momento, adesso ne avrebbe avuti ventinove, ma non era cambiata per niente… i morti rimangono giovani. Aveva gli occhi che mi interrogavano.
«Adesso» pensai «le lancio addosso qualcosa»; ma, sebbene fosse solo un sogno, non potei risolvermi — neanche nel sonno — a buttare qualcosa contro una morta.
— Povera piccola — dissi — sei venuta a farmi una visita, vero?
M’impaurii. Il suono della mia voce era così autentico, la stanza e Harey, tutto pareva assolutamente vero. «Che sogno realistico, non solo, ma anche a colori, e sul pavimento vedo oggetti di cui ieri sera non mi sono accorto. Quando mi sveglierò» pensai, «dovrò controllare se ci sono veramente o se sono soltanto una fantasia del sogno come Harey…»
— Hai intenzione di stare a lungo seduta così? — domandai, e mi accorsi che avevo parlato piano, come per timore che qualcuno udisse… già, quasi fosse possibile che qualcuno potesse spiarmi nel sogno!
Il sole, intanto, era spuntato. Be’, meno male, buon segno anche quello. Mi ero coricato col sole rosso, dopo il quale veniva il giorno azzurro e poi ancora quello rosso. Poiché non potevo certo avere dormito per quindici ore di fila, era certamente un sogno.
Rassicurato, guardai bene Harey. Era in controluce, attraverso una fessura della tenda un raggio le illuminava la pelle vellutata della guancia sinistra e proiettava sul suo viso l’ombra delle ciglia. Era bellissima. «Ma guarda» mi dissi «come sono minuzioso, pur essendo fuori della realtà: controllo anche il movimento del sole, e, in più, quella fossetta che lei ha sotto gli angoli delle labbra.»
Però era meglio che tutto finisse presto, dovevo pur riprendere a lavorare. Chiusi le palpebre, cercando di svegliarmi, poi di colpo udii uno scricchiolio. Immediatamente aprii gli occhi. Si era seduta sul letto accanto a me e mi guardava, seria. Le sorrisi e lei mi sorrise, si chinò sopra di me; il primo bacio fu delicatissimo, come se fossimo due bambini.
La baciai a lungo. «Si può mai vivere un sogno fino a questo punto?» pensavo. Ma non tradivo il suo ricordo, poiché sognavo di lei, solo di lei. Non mi era mai capitato… Continuavamo a rimanere in silenzio. Restavo supino. Quando rialzò il viso, scorsi, sul lato illuminato dal sole, quella sua macchiolina della pelle che era un barometro dei suoi sentimenti; con la punta delle dita le sfiorai i lobi delle orecchie, arrossati per i miei baci, e non so se fu per questo che cominciai a essere inquieto; continuavo a ripetermi che era un sogno, ma provavo una stretta al cuore.
Feci per saltare fuori dal letto; ero preparato all’insuccesso, poiché nel sonno, molto spesso, non si riesce ad avere il controllo sul proprio corpo, che è come assente; contavo però che quel tentativo mi strappasse dal sonno. Comunque, non mi svegliai; mi sedetti, con i piedi posati sul pavimento.
«Niente da fare, devo smettere di sognare» mi dissi; ma il mio buon umore era svanito senza lasciare traccia. Avevo paura.
— Che cosa vuoi? — domandai. La mia voce era rauca e dovetti schiarirmi la gola.
Cercai meccanicamente, con i piedi nudi, le pantofole e, prima di ricordarmi che non le avevo, urtai l’alluce così malamente che imprecai. «Oh, adesso finirà!» pensai con soddisfazione.
Ma non accadde niente. Harey, quando mi ero alzato a sedere, si era scostata. Ora si appoggiava con la schiena sul letto. Il vestito palpitava delicatamente sotto il seno sinistro, al battito del cuore. Lei mi guardava con interesse, pacificamente. Pensai che era meglio fare una doccia; ma mi venne in mente che una doccia fatta in sogno non può svegliare.
— Da dove arrivi? — chiesi.
Sollevò la mia mano e, con un gesto che mi era familiare, si mise a battere contro di essa; mi prendeva sotto i polpastrelli e premeva.
— Non lo so — mi disse. E aggiunse: — E’ sbagliato?
Anche la voce era la stessa, bassa, con un accento un po’
assente. Harey aveva sempre parlato così, non badando alle parole che usava, come se avesse già in mente un’altra cosa; dava l’impressione di essere distratta e talvolta sfacciata, perché guardava tutti con quel blando stupore che adesso le si leggeva negli occhi.
— Chi… qualcuno ti ha vista?
— Non lo so. Sono arrivata, semplicemente. E’ importante, Chris?
Continuava a giocherellare con la mia mano, ma il viso non vi prendeva parte. Era imbronciato.