— Harey…
— Che cosa, caro?
— Come hai fatto a sapere dov’ero?
Ciò la fece riflettere. Quasi non si notava (aveva le labbra scure come se avesse mangiato amarene) che il sorriso le lasciava scoperti leggermente i denti.
— Non ne ho idea. E’ buffo, no? Dormivi, quando sono entrata, e non ti ho svegliato. Non volevo svegliarti, perché sei un collerico e un noioso. Collerico e noioso…
Dicendo queste parole mi sollevò energicamente la mano.
— Sei stata di sotto?
— Ci sono stata. Sono scappata da lì perché faceva freddo.
Lasciò andare il mio braccio e, sdraiandosi di fianco, gettò la testa indietro per mandare tutti i capelli da una parte; mi guardava con quel mezzo sorriso che aveva smesso di irritarmi quando avevo cominciato ad amarla.
— Ma… Harey… ma… — balbettai. Mi chinai su di lei e alzai la manica corta del suo vestito. Sotto la rosetta della cicatrice della vaccinazione antivaiolosa c’era il rosso di un piccolo segno che pareva provocato da una iniezione. Nonostante me lo aspettassi (poiché istintivamente cercavo vestigia di logica nell’irrealtà), mi venne la nausea.
Toccai col dito quel segno di puntura, lo stesso che vedevo in sogno da anni, e che mi faceva svegliare urlando fra le lenzuola sfatte, sempre nella stessa posizione, piegato quasi in due come era sdraiata lei quando l’avevo trovata, quasi fredda. Nei miei sogni cercavo di fare quel che aveva fatto lei, come se volessi chiedere perdono alla sua memoria o accompagnarla negli ultimi minuti, quando aveva già sentito l’effetto dell’iniezione e cominciava ad avere paura.
Harey aveva sempre avuto paura di ferirsi anche minimamente, non poteva sopportare il dolore e nemmeno la vista del sangue, ma di colpo aveva fatto quella cosa orribile, lasciandomi cinque parole su un foglietto. L’avevo tra le mie carte, lo portavo sempre con me, ormai gualcito e logoro lungo le piegature, senza avere mai avuto il coraggio di separarmene. Mille volte ero tornato a quel momento, quando lei lo aveva scritto, e a ciò che aveva potuto provare in quegli istanti. Cercavo di persuadermi che avesse voluto solo spaventarmi, ma che la dose fosse risultata — per caso — troppo forte.
Tutti avevano cercato di convincermi che era stata una decisione repentina, provocata da una depressione improvvisa.
Non sapevano quel che le avevo detto, cinque giorni prima, quando per ferirla e addolorarla mi ero portato via la mia roba, e lei, mentre facevo le valigie, mi aveva risposto, tranquillamente: «Sai cosa significa…?».
Avevo fatto finta di non capire; ma la credevo vile e anche questo gliel’avevo detto… e adesso era sdraiata nel letto e mi guardava attentamente, come se non sapesse che io l’avevo uccisa.
— Non sei capace d’altro? — domandò. La stanza era arrossata dal sole, nei suoi capelli ardeva l’alba; lei si guardò il braccio, che era diventato importante perché io l’avevo osservato a lungo; quando abbassai la mano, lei vi posò la guancia liscia.
— Harey — dissi con voce rauca — non può essere…
— Piantala!
Aveva gli occhi chiusi, vedevo il loro movimento sotto le palpebre, le lunghe ciglia nere toccavano le guance.
— Dove siamo, Harey?
— Da noi.
— Dove?
I suoi occhi si aprirono un attimo e si chiusero di nuovo.
Le sue ciglia mi accarezzarono la mano.
— Chris?
— Cosa?
— Sto bene.
Ero seduto, curvo sopra di lei, e non mi muovevo. Alzai la testa e vidi riflessi nello specchio sopra il lavandino i capelli di Harey spettinati e le mie ginocchia nude. Attirai col piede uno di quegli utensili a metà fusi che erano sparsi sul pavimento e lo sollevai con la mano libera. La punta era affilata.
L’appoggiai sulla pelle, là dove avevo una cicatrice rotonda e rossa, e lo conficcai nella carne. Il dolore era fastidioso.
Guardai il sangue che stillava a grandi gocce sulla superficie esterna della coscia e cadeva lentamente sul pavimento.
Era inutile. Ogni volta i pensieri atroci che mi passavano per la mente diventavano più espliciti. Da tempo non mi dicevo più: «E’ un sogno», non lo credevo più. Pensavo solo:
«Devo difendermi». Guardai la sua schiena che traspariva dal vestito bianco, la forma dei suoi fianchi, i suoi piedi scalzi penzolanti sopra il pavimento. Mi chinai, toccai leggermente la caviglia rosea, passai la mano sotto la pianta del piede.
Era delicata come quella di un neonato.
Seppi allora con certezza che non era Harey, e che quasi sicuramente lei stessa non lo sapeva. Il piede scalzo si mosse sotto le mani, le labbra scure di Harey ridevano senza far rumore.
— Piantala… — disse piano.
Liberai dolcemente la mano e mi alzai. Ero ancora nudo.
Mentre mi vestivo in fretta, vidi che si era seduta sul letto.
Mi guardava.
— Dov’è la tua roba? — domandai, e mi pentii subito.
— La mia roba?
— Ma hai solo questo vestito?
Ormai era un gioco. Mi comportavo apposta con noncuranza, con naturalezza, come se ci fossimo lasciati il giorno prima, no, come se non ci fossimo mai lasciati. Si alzò e con una leggera mossa diede un colpo alla gonna per lisciarla. Le mie parole l’avevano interessata, ma non disse nulla. Per la prima volta diede uno sguardo concreto all’ambiente, come cercando qualcosa, poi riportò gli occhi su di me, visibilmente stupita.
— Non so… — mi disse vaga. — Forse nell’armadio…? — aggiunse, e socchiuse la porta.
— No, lì ci sono solo le tute — risposi. Trovai di fianco al lavandino il rasoio elettrico e cominciai a farmi la barba. Preferivo non voltare le spalle a quella ragazza, chiunque fosse.
Camminava su e giù per la cabina, guardando in tutti gli angoli, e fuori dalla finestra; alla fine mi si avvicinò e disse:
— Chris, ho l’impressione che sia successo qualcosa…
S’interruppe. Aspettai, col rasoio in mano.
— E’ come se avessi scordato… è come se avessi scordato quasi tutto. Solo… ricordo te… E… e niente di più.
L’ascoltavo cercando di dominare la mia espressione.
— Sono… stata ammalata?
— No… ma si potrebbe dire così. Sì, per un certo tempo sei stata un po’ ammalata.
— Ah. Dev’essere per questo.
Cominciò a rasserenarsi.
Non so descrivere ciò che passai. Quando stava zitta, e camminava, e si sedeva, e sorrideva, ero convinto di avere davanti a me Harey. A farmi girare la testa era qualcosa di più forte della paura. Una Harey semplificata, limitata alle sue caratteristiche nei gesti e nelle risposte. Mi si avvicinò, mise i pugni sotto il mento e mi domandò: — Come andiamo?
Bene o male?
— Nel migliore dei modi. Sorrise impercettibilmente.
— Se lo dici così, direi che va male.
— Ma no, Harey carissima. Adesso devo uscire — dissi rapidamente. — Mi aspetterai, vero? Forse… hai fame — aggiunsi, poiché a un tratto sentivo anch’io crescere la fame.
— Fame? No.
Scosse la testa, e i capelli ondeggiarono.
— Devo aspettarti? Per molto?
— Un’oretta… — cominciai, ma m’interruppe.
— Vengo con te.
Era un’altra Harey: quella che conoscevo non era mai stata così invadente.
— Piccola, non è possibile.
Mi guardava dal basso e mi prese la mano. La toccai dal braccio alla spalla, il suo braccio era pieno e caldo, una carezza non intenzionale. Il mio corpo si riconosceva nel suo, lo desideravo, mi attraeva fino alla follia, al di là delle incertezze e della paura.
Cercando a tutti i costi di tranquillizzarla, ripetei: — Harey, è impossibile: devi rimanere.
— No.
Come risuonò nella cabina quella parola!