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— Perché?

— N… non lo so.

Si guardò attorno e di nuovo alzò gli occhi.

— Non posso… — disse quasi sottovoce.

— Ma, perché?

— Non lo so. Non posso. Mi sembra che… mi sembra che…

Chiaramente, cercava una risposta. Quando la trovò, fu per lei quasi una scoperta.

— Mi sembra… che io non debba smettere di vederti.

L’intonazione concreta tolse alle parole ogni sentimento di fedeltà. Sotto questa impressione, il mio abbraccio cambiò…

anche se apparentemente non lo mostrai. Era rigida tra le mie mani; fissandola negli occhi, cominciai a piegarle le braccia all’indietro. Questo movimento, sebbene non premeditato, aveva uno scopo. Cercavo con gli occhi qualcosa con cui legarla. I suoi gomiti si toccarono e, contemporaneamente, si tesero con tale forza che annullarono la mia presa. Lottai per un secondo. Nemmeno un’atleta, piegata all’indietro come era Harey, toccando appena con i piedi il pavimento, sarebbe riuscita a liberarsi; lei, però, con un’espressione del tutto indifferente, senza modificare il suo lieve sorriso un po’ insicuro, spezzò il mio abbraccio, si raddrizzò e abbassò le mani.

I suoi occhi mi osservavano con la stessa tranquilla curiosità di prima, quando mi ero svegliato, come se non si fosse resa conto del mio disperato sforzo per immobilizzarla dettato da un accesso di paura. Era in piedi, inerte, sembrava che aspettasse qualcosa, indifferente e allo stesso tempo raccolta e leggermente stupita di tutto.

Mi caddero le braccia. La lasciai in mezzo alla stanza e mi diressi verso il piano del lavandino. Sentivo di essere in trappola e ne cercavo l’uscita, pensando convulsamente cosa fare. Se qualcuno mi avesse chiesto che cosa mi succedeva, che cosa significasse tutto quello, non sarei riuscito a dire neppure una parola, però mi rendevo conto che era qualcosa che succedeva a tutti nella stazione, ed era insieme tremendo e incomprensibile; eppure mi ostinavo a cercare una via d’uscita. Anche se ero di spalle, sentivo lo sguardo di Harey.

Sopra il ripiano, in una nicchia del muro, si trovava una cassetta di pronto soccorso. Vi guardai dentro rapidamente. Trovai un tubetto con dei sonniferi e buttai quattro pastiglie — la dose massima — nel bicchiere. Non cercavo di nascondere ad Harey quel che facevo. Mi era difficile dirne il perché. Non ci pensavo troppo. Versai nel bicchiere acqua calda, aspettai che si sciogliessero le pastiglie e mi avvicinai ad Harey che restava in mezzo alla stanza.

— Sei arrabbiato? — domandò in un bisbiglio.

— Bevi questo.

Non saprei spiegarne il motivo, ma ero certo che mi avrebbe obbedito. Ed effettivamente prese il bicchiere dalle mie mani e ne bevve il contenuto.

Appoggiai il bicchiere vuoto su un mobile e mi sedetti in un angolo tra l’armadio e la biblioteca. Harey mi si avvicinò lentamente, si accucciò per terra a fianco della poltrona, com’era solita fare, con le gambe sotto di sé, e, con un movimento a me ben noto, buttò i capelli all’indietro. Pur convinto che non fosse lei, ogni volta, riconoscendo questi particolari, qualcosa mi stringeva la gola. Era davvero una cosa incomprensibile e tremenda, e soprattutto terribile, per me, quel cercare di darle a intendere, contro la mia volontà, che la consideravo Harey, quando lei stessa, senza malizia, era convinta di esserlo. Non so come potevo essere arrivato a capirlo, ma ne ero sicuro, se di qualcosa si poteva essere sicuri…

Ero seduto, la ragazza appoggiava la schiena contro le mie ginocchia, i suoi capelli solleticavano la mia mano immobile, stavamo in quella posizione senza muoverci. Di tanto in tanto guardavo l’orologio. Era passata mezz’ora. Il sonnifero ormai avrebbe dovuto fare effetto. Harey sussurrò adagio qualcosa.

— Che cosa dici? — domandai, ma non mi rispose.

Presi questo per un segno di sonnolenza incipiente, sebbene, quant’è vero Dio, nel fondo della mia anima dubitassi che il barbiturico facesse effetto. Perché? A questa domanda non trovavo risposta, sicuramente perché il mio ragionamento era fin troppo semplice.

Pian piano la sua testa scivolò dalle mie ginocchia mentre i capelli neri le coprirono il viso; respirava regolarmente, come una persona addormentata. Mi chinai per adagiarla sul letto. Di colpo, senza aprire gli occhi, mi afferrò i capelli con la mano e scoppiò a ridere.

Rimasi paralizzato mentre lei rideva a più non posso. Gli occhi socchiusi, mi guardava con un’aria tra l’ingenuo e il furbo. Ero seduto in una posizione rigida, non naturale, intontito e smarrito. Harey rise ancora, avvicinò la sua faccia alla mia mano e rimase in silenzio.

— Perché ridi? — domandai con voce severa.

Un’espressione ferma e riflessiva apparve sul suo volto.

Vedevo che voleva essere sincera. Si toccò il naso con un dito e disse sospirando: — Non lo so. — Mi sembrava sorpresa.

— Mi comporto come un’idiota, vero? — continuò. — Ma mi viene spontaneo… Anche tu, però: te ne stai seduto lì, borioso come… Pelvis…

— Cosa? — domandai, credendo di avere udito male.

— Come Pelvis, sai, quello grasso…

Ora, fuor di ogni dubbio, Harey non poteva conoscere Pelvis, e nemmeno averne sentito parlare da me, per il semplice fatto che era tornato dalla sua spedizione tre anni dopo il suicidio. Anch’io non l’avevo conosciuto fino a quell’epoca e tanto meno sapevo che, quando presiedeva le riunioni dell’Istituto, aveva l’abitudine inveterata di prolungarle all’infinito.

Si chiamava Pelle Villis, e da questo era nato il nomignolo, che mi era però sconosciuto prima del suo ritorno.

Harey appoggiò i gomiti sulle mie ginocchia e mi guardò in faccia. Le posai le mani sulle spalle e risalii fino ad arrivare all’attaccatura del collo. Poteva credere che fosse una carezza, e dai suoi occhi si poteva pensare che non immaginasse altro. In realtà mi convinsi che il suo corpo, sotto il mio semplice contatto, era caldo e umano, e che sotto i muscoli si celavano ossa e articolazioni. Guardandola dritto negli occhi tranquilli mi venne un’orrenda voglia di stringere le dita con forza.

Stavo quasi per farlo, quando mi tornarono in mente le mani insanguinate di Snaut e la lasciai.

— Come mi guardi… — mi disse con calma.

Il mio cuore batteva così forte che non fui in grado di replicare. Abbassai per un momento le palpebre.

Di colpo articolai un piano d’azione, minuzioso, con tutti i particolari. Non volendo perdere tempo, mi alzai dalla poltrona.

— Harey, devo andarmene — dissi. — Se veramente vuoi, vieni con me.

— Bene.

Si alzò di colpo.

— Perché sei scalza? — domandai, avvicinandomi all’armadio e scegliendo due tute colorate, una per me e una per lei.

— Non lo so… devo aver perso le scarpe da qualche parte…

— disse incerta.

Finsi di non avere udito. — Sopra il tuo vestito non riuscirai a metterti questo. Devi togliertelo.

— La tuta…? E per che cosa? — chiese, cercando di togliersi il vestito. Ma succedeva una cosa strana: era impossibile sfilarlo, non aveva abbottonatura. I bottoni rossi, sul davanti, erano solo decorativi. Mancava qualsiasi tipo di chiusura, cerniera lampo o altro. Harey sorrideva impacciata.

Come se fosse la cosa più naturale del mondo, raccattai dal pavimento una specie di scalpello e tagliai il tessuto partendo dalla scollatura. Così riuscì a togliersi l’abito dalla testa. La tuta le stava un po’ grande.

— Dobbiamo volare…? Anche tu? — mi domandò mentre entrambi, già vestiti, lasciavamo la stanza. Annuii con la testa.

Avevo una paura tremenda di incontrare Snaut, ma il corridoio che andava verso il vano di arrivo era vuoto e la porta della cabina radio era chiusa.

Nella stazione spaziale perdurava un cupo silenzio. Harey stette a guardare mentre, con un piccolo carrello elettrico, indirizzavo il razzo dal box di mezzo a un binario libero.