— Non capisco… — dissi confuso. Davvero non capivo niente. Annuii con la testa.
— Un uomo normale — disse. — Che vuoi dire, un uomo normale? E’ quello che non ha mai commesso niente di abominevole? Sì: ma non ha mai pensato di farlo? Forse no, ma qualcosa ha pensato in lui. Si è immaginato qualcosa, dieci o trenta anni fa; forse se ne è difeso e l’ha dimenticato e non ne ha più avuto paura, poiché sapeva che non l’avrebbe mai fatto. Sì, e adesso immaginati che, di colpo, un certo giorno, tra altra gente, egli trovi questa COSA, incarnata, attaccata a lui, indistruttibile, e allora…? Che cos’hai, allora?
Rimasi in silenzio.
— La stazione — disse a bassa voce. — Allora, hai la stazione Solaris.
— Ma… insomma, che cosa può essere? — dissi titubante. —
Non sei un delinquente, e nemmeno Sartorius lo è…
— E tu saresti uno psicologo, Kelvin! — mi interruppe con impazienza. — Chi non ha mai fatto un sogno simile? Immaginazione? Pensa a un feticista che si innamora di un pezzo di biancheria sporca, che rischiando la pelle conquista il suo caro e orrendo straccio. L’oggetto della sua attenzione gli fa schifo, ma contemporaneamente darebbe la vita per averlo. I suoi sentimenti possono essere pari a quelli di Romeo e Giulietta. Simili cose capitano, vero? Puoi dunque capire che devono esistere delle cose, delle situazioni… tali che nessuno ha mai avuto il coraggio di realizzarle, al di fuori della propria mente, in un momento di follia, di aberrazione, di pazzia, chiamala come vuoi. Dopo di ciò, il verbo s’incarna.
Ecco tutto.
— Ecco… tutto — ripetei stupidamente, con voce atona. La mia testa rimbombava. — Ma la stazione, come c’entra?
— Tu fingi — brontolò. Mi guardava attentamente. — Io sto parlando di Solaris, sempre e solo di Solaris, e di nient’altro!
Non è colpa mia se la realtà è così brutalmente diversa dalle tue aspettative. Credo che tu ne abbia passate già abbastanza per ascoltarmi sino alla fine.
«Noi partiamo per lo spazio preparati a tutto, cioè pronti al sacrificio, alla solitudine, alla lotta, alla morte. Per modestia, non lo diciamo ad alta voce, ma lo pensiamo dentro di noi di tanto in tanto; pensiamo di essere eccezionali. Intanto, però, non è tutto, il nostro zelo si rivela una posa. Non abbiamo nessuna voglia di conquistare il cosmo, noi vogliamo soltanto allargare fino ai suoi ultimi confini le frontiere della Terra.
Certi pianeti devono essere deserti come il Sahara, altri freddi e ghiacciati come il Polo o tropicali come la giungla del Brasile. Siamo umanitari e nobili, non abbiamo intenzione di conquistare altre razze, vogliamo solo trasmettere i nostri valori e in cambio impadronirci del loro patrimonio. Ci crediamo cavalieri dell’ordine del Santo Contatto. Questa è una bugia. Noi cerchiamo solo l’uomo. Non abbiamo bisogno di altri mondi, abbiamo bisogno di specchi. Non sappiamo che cosa farcene di altri mondi. Uno ci basta, quello in cui sguazziamo. Vogliamo trovare il ritratto idealizzato del nostro mondo! Cerchiamo dei pianeti con una civiltà migliore della nostra… ma che sia l’immagine evoluta di quel prototipo che è il nostro passato primordiale. Dall’altro lato, c’è in noi qualcosa che non accettiamo, contro cui lottiamo; ma che comunque resta, perché dalla Terra non abbiamo portato un distillato di virtù o una statua alata dell’uomo! Siamo arrivati qua così come siamo realmente, e quando l’altra faccia, cioè la parte che manteniamo segreta, si mostra com’è veramente… non riusciamo ad andarci d’accordo!»
— Allora, che cos’è? — domandai, dopo averlo ascoltato con pazienza.
— Quel che volevamo: il contatto con un’altra civiltà. L’abbiamo, questo contatto! Ingrandita come se fosse sotto il microscopio… la nostra mostruosa bruttezza, la nostra buffoneria e vergogna! — Nella sua voce vibrava la rabbia. — Allora credi che sia… l’oceano? Che sia lui? Ma a che scopo? Lasciamo da parte, per ora, la meccanica; ma «a che scopo»?!
Per amor di Dio! Pensi seriamente che voglia giocare con noi? O che ci voglia punire? Allora si tratta veramente di una diavoleria primitiva? Il pianeta sarebbe dunque dominato da un grosso demone che per soddisfare il suo umore satanico rende succube l’equipaggio della spedizione scientifica?!
Non crederai a simili idiozie! Questo diavolo non è per niente stupido — brontolò tra i denti.
Lo guardai meravigliato. Mi venne in mente che, alla fine, poteva essere caduto in preda a una crisi psicotica, anche non volendo spiegare con la follia tutto ciò che accadeva all’interno della stazione. — Psicosi reattiva…? — mi scappò detto, e Snaut si mise a ridere piano.
— Stai formulando la diagnosi? Vacci piano. In fondo hai avuto modo di conoscere solo la forma benigna, e non ne sai niente di più!
— Ah. Il diavolo si è mostrato pietoso con me — sbottai.
Quel colloquio cominciava ad annoiarmi.
— Che cosa vorresti? Che ti dicessi quali piani vada architettando contro di noi questa massa di X miliardi di tonnellate di plasma metamorfico? Nessuno, forse.
— Come, nessuno? — domandai impietrito. Snaut continuava a sorridere.
— Dovresti saperlo, che la scienza si occupa soltanto di ciò che succede, non di ciò che non è ancora successo. Come? E’ accaduto otto o nove giorni dopo l’esperimento con i raggi X.
Forse l’oceano ha risposto alla radiazione con un’altra radiazione, e così ha potuto sondare i nostri cervelli e impadronirsi di certe costellazioni psichiche.
Questo ridestò il mio interesse.
— Eh, sì. Dei processi isolati da tutto il resto, chiusi in sé, attutiti, murati, qualche scintilla della memoria. Li ha trattati come campioni e come piano di costruzione… lo sai come sono simili le catene molecolari asimmetriche dei cromosomi e le unità nucleiche dei cerebrosidi che compongono il sostrato dei processi di memorizzazione… Questo plasma ereditario è plasma che «ricorda». L’oceano ha prelevato questo, da noi, ne ha preso nota, poi tu sai che cos’è successo. Ma perché l’ha fatto? Be’! In ogni caso, non per distruggerci; sarebbe per lui troppo facile. Oltretutto, data la sua disinvoltura tecnologica, potrebbe fare qualsiasi cosa, per esempio metterci davanti dei sosia.
— Ah! — esclamai. — Per questo ti sei preso uno spavento la prima sera, quando sono arrivato?
— Sì. Forse — aggiunse — forse l’ha fatto. Come puoi sapere se sono veramente quel buon diavolo di Topo che venne qui due anni fa…? — Incominciò a ridere silenziosamente, come se la mia meraviglia gli desse chissà che soddisfazione, ma smise subito. — No, no — brontolò. — Ce n’è già abbastanza senza questo… Forse esistono altre caratteristiche inconfondibili, ma io ne conosco solo una: possiamo ucciderci, tu e io.
— E loro no?
— Non ti consiglio di provare. E’ uno spettacolo orrendo!
— Non è proprio possibile?
— Non lo so. A ogni modo, non con il veleno, con il coltello, con la corda…
— E una pistola gamma?
— Tu proveresti?
— Chissà. Poiché non sono persone…
— Ma lo sono, in un certo senso. Soggettivamente, sono persone. Non si rendono affatto conto della loro… origine.
L’hai forse notato?
— Sì. E allora com’è?
— Si rigenerano a una velocità incredibile. Una velocità impossibile, ti dico. In un batter d’occhio. E ricominciano comportandosi come… come…
— Come cosa?
— Come ce li immaginiamo: queste note memorizzate secondo le quali…
— Sì. E’ vero — convenni. Non badavo al fatto che la pomata mi scendeva dalle guance bruciate e gocciolava sulle mani. —
Gibarian lo sapeva? — domandai improvvisamente.
Mi guardò con attenzione.
— Vuoi dire se sapeva quel che a nostra volta sappiamo?