— Ti ringrazio. Conosco la pianta della stazione.
— Avrai fame…
— No. Dov’è Gibarian?
Andò verso la finestra come se non avesse udito la domanda. Di schiena sembrava più vecchio: i capelli, molto corti, erano bianchi, e la nuca abbronzata era segnata da rughe profonde come tagli.
Oltre il vetro della finestra brillavano di tanto in tanto le immense creste delle onde, che si alzavano e ricadevano lentamente come se l’oceano fosse rappreso. Guardando fuori si aveva l’impressione che la stazione si spostasse leggermente di lato, slittando su un basamento invisibile. Poi riprendeva la sua posizione e si inclinava dall’altra parte. Però credo fosse solo un’illusione ottica. Brandelli di densa schiuma color sangue si raccoglievano negli avvallamenti fra le onde.
Per un istante la nausea mi strinse la gola. L’ordine rigoroso che regnava a bordo del Prometheus mi parve un bene prezioso perduto per sempre.
— Senti… — disse improvvisamente Snaut — per il momento ci sono solo io… — si girò. Si fregò nervosamente le mani. —
Dovrai accontentarti della mia compagnia. Per ora. Chiamami Topo. Mi hai conosciuto solo in fotografia, ma non fa niente, tutti mi chiamano così. Credo che non ci sia rimedio.
Quando si è stati allevati, come me, da genitori con ambizioni cosmiche… Topo è giusto…
— Dov’è Gibarian? — insistetti ancora una volta.
Socchiuse gli occhi. — Scusami per l’accoglienza, non… non è solo colpa mia. Mi ero completamente dimenticato.
Sai, qui sono successe molte cose…
— Va bene — dissi esasperato — lascia perdere. Allora, che cos’è successo con Gibarian? Non è alla stazione? E’ in missione da qualche parte?
— No — rispose. Fissava un angolo ingombro di rotoli di cavi elettrici. — Da nessuna parte. E non andrà da nessuna parte, mai più. Perciò… tra l’altro…
— Come dici? — risposi. Avevo come un ronzio alle orecchie e pensai di avere udito male. — Che significa? Dov’è?
— Lo sai già — disse con un altro tono. Mi guardò negli occhi freddamente, e provai un brivido. Forse era ubriaco, ma sapeva quel che diceva.
— E’…
— Un incidente?
Annuì con il capo. Oltre a confermare con vigore, spiava la mia reazione.
— Quando?
— Oggi, all’alba.
Strano, ma non provai alcun turbamento. In un certo modo, con la sua concretezza, quello scambio di domande e risposte a monosillabi mi aveva rassicurato. Mi illusi che potesse spiegare l’atteggiamento incomprensibile di prima.
— Come è successo?
— Va’ a cambiarti e a mettere in ordine la tua roba — disse lui, senza rispondere. — Torna qui… tra… diciamo, un’ora.
Esitai un momento. Poi lasciai perdere. — Bene.
— Aspetta — soggiunse, mentre mi giravo verso la porta. Mi guardava in modo strano; evidentemente le parole che intendeva dirmi non volevano uscirgli dalla bocca.
— Eravamo in tre e adesso, con te, siamo di nuovo in tre.
Conosci Sartorius?
— Come conoscevo te, dalle fotografie.
— E’ sopra, nel laboratorio, e non credo che ne uscirà prima di sera, però lo riconoscerai. Ma se tu dovessi vedere qualcuno… voglio dire, non me e non Sartorius, capisci, allora…
— Allora che cosa? — chiesi.
Credevo di sognare. Sullo sfondo delle onde rilucenti sotto i raggi del sole al tramonto, Snaut si sedette nella poltrona, con la testa abbassata, fissando l’angolo dove c’erano le bobine dei cavi elettrici.
— Allora… non fare niente — concluse.
— E chi dovrei vedere? Un fantasma? — esplosi.
— Capisco. Tu credi che io sia impazzito. No, non sono impazzito. Non riuscirei a spiegartelo in un altro modo… per ora. Del resto, forse… non accadrà niente. Comunque, ricorda, io ti ho messo in guardia.
— Da chi?
— Dòminati — disse cocciutamente. — Comportati come se… fossi preparato al peggio. E’ impossibile, lo so, però prova a farlo. E’ l’unico rimedio. Non ne conosco altri.
— Ma «che cosa» dovrei vedere? — quasi urlai. A stento mi trattenni dall’agguantare per le spalle e scuotere quell’uomo dalla faccia stanca e bruciata, che, immobile, fissava un angolo e si lasciava sfuggire con visibile sforzo frasi inarticolate.
— Non so. In un certo qual modo dipende da te.
— Allucinazioni?
— No. E’ realtà. Non… aggredire. Ricordatelo.
— Che cosa dici? — risposi con una voce che quasi non riconoscevo.
— Non siamo sulla Terra.
— Un aspetto che riguarda il pianeta? Ma è qualcosa di completamente diverso da noi! — gridai. Non sapevo come distoglierlo da quella fissità incantata, che pareva dipendere da qualche sua agghiacciante assurdità.
— Perciò è ancor più terribile — confermò a bassa voce. — Ricorda: sta’ attento.
— Che cosa è successo a Gibarian?
Anche ora non rispose.
— Che cosa fa Sartorius? — insistetti.
— Tu torna tra un’ora.
Mi voltai e uscii. Aprendo la porta, lo guardai ancora una volta. Sedeva raggomitolato, col viso tra le mani, con i pantaloni macchiati, immobile. Soltanto allora mi accorsi che sulle nocche delle mani aveva del sangue raggrumato.
2. I SOLARISTI
Il corridoio tubolare era vuoto. Sostai davanti alla porta chiusa e ascoltai. Le pareti dovevano essere molto sottili, poiché dall’esterno giungeva il fischio del vento. Sulla porta di fronte era appiccicato di sghembo un pezzo rettangolare di nastro adesivo bisunto, con su scritto a matita: UOMINI.
Guardai la parola scarabocchiata e per un attimo ebbi voglia di tornare da Snaut, ma capii che era inutile.
I suoi avvertimenti mi echeggiavano ancora nelle orecchie.
Mi mossi, curvo sotto il peso esasperante della tuta. Silenziosamente, come nascondendomi a un osservatore invisibile, tornai nella rotonda per provare le altre porte. Sulla targhetta della prima si leggeva: DOTT. GIBARIAN; sulla seconda: DOTT. SNAUT; sulla terza: DOTT. SARTORIUS. Sulla quarta, niente. Esitai, poi premetti piano la maniglia e aprii lentamente. Mentre spingevo provai il presentimento, quasi la certezza, che ci fosse qualcuno nella cabina. Entrai.
Non c’era nessuno. Attraverso una piccola finestra convessa si vedeva l’oceano, che da quella parte, sotto il sole, era tutto lustro come se dalle onde colasse un olio rossastro. Il riflesso scarlatto riempiva la cabina, che era simile a quella di una nave. Su un lato c’erano alcuni scaffali di libri, e tra di essi era appoggiato un letto, in verticale, contro la paratia; dall’altro lato, tra vari stipetti con maniglie metalliche (uno era aperto e si vedevano becchi a gas e provette tappate col cotone), erano appese vedute aeree in cornici di nichel; su due file, sotto la finestra, erano sistemati contenitori bianchi, smaltati, che ingombravano il passaggio. Alcuni erano aperti e all’interno si potevano vedere utensili e cannucce di plastica in gran numero. Agli angoli della stanza c’erano alcuni rubinetti, un aspiratore dei fumi, un frigorifero.
Il microscopio, per il quale non c’era più posto sul grande tavolo vicino alla finestra, era posato sul pavimento. Girandomi, vidi accanto alla porta d’entrata un armadio socchiuso, alto fino al soffitto, pieno di tute, di camici, di grembiuli isolanti e, sui ripiani, biancheria, scarponi antiradiazione e le bombole d’alluminio degli autorespiratori. Due di questi apparecchi, completi di maschere, erano appesi alle maniglie del letto rialzato.
Lo stesso caos regnava dappertutto, l’ordine era solo apparente. Fiutai l’aria; sentii un lieve effluvio di reagenti chimici e la traccia di un odore più aspro, forse cloro. Automaticamente alzai lo sguardo alle grate del condizionatore sul soffitto. Alcune striscioline di carta attaccate agli orli svolazzavano, indicando che i compressori erano in funzione per mantenere il normale ricircolo d’aria.