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Tolsi da due sedie i libri, gli apparecchi, gli utensili e li ammucchiai alla meglio in un angolo, in modo da creare un po’ di spazio vuoto fra il letto e l’armadio. Tirai fuori un attaccapanni, per appendervi la mia roba, e presi tra le dita la linguetta della chiusura lampo; ma la mollai subito. Non mi risolvevo a togliermi la tuta, quasi che, senza di essa, sarei rimasto indifeso. Ancora una volta passai in rassegna la camera; controllai che la porta fosse ben chiusa, ma non aveva chiavistello e, dopo un attimo di riflessione, spinsi contro di essa due contenitori, dei più grossi. Dopo essermi sommariamente barricato in quel modo, in tre mosse mi liberai del mio involucro pesante e scricchiolante. Sull’anta dell’armadio, all’esterno, uno specchio stretto rifletteva una parte della camera. Sussultai perché, con la coda dell’occhio, avevo colto un movimento; ma era il mio riflesso. La maglia, sotto la tuta, era inzuppata di sudore. La tolsi e chiusi l’anta; dietro c’era una porta che dava su uno stanzino da bagno. In basso, sotto la doccia, c’era una cassetta piatta, piuttosto grande. La sollevai e, con un certo sforzo, la trasportai in camera.

Quando la posai al suolo, il coperchio si aprì di scatto, spinto da una molla. Gli scomparti erano pieni di oggetti strani, abbozzi di metallo cupo, quasi goffe imitazioni degli strumenti che si trovavano negli stipetti. Erano rovinati, deformati, smussati, parzialmente fusi, come se fossero passati nel fuoco. La cosa più inusuale erano le tracce di alterazione nelle maniglie di ceramica, che erano pressoché indistruttibili. In nessun forno di laboratorio si sarebbe potuta raggiungere la necessaria temperatura di fusione: forse in una pila atomica. Per rilevare le radiazioni, presi un contatore dalla tasca della tuta spaziale, ma il suo muso nero rimase muto quando lo avvicinai a quei relitti. Ero rimasto in mutande e canottiera. Buttai per terra anche questi indumenti, come stracci, e nudo entrai nella doccia.

L’urto dell’acqua mi calmò. Mi giravo sotto la pioggia di getti forti e bollenti, mi sfregavo e sbuffavo con energia esagerata, come per togliermi di dosso il contagio della torbida incertezza che appestava la stazione.

Cercai nell’armadio una tuta da allenamento, di quelle che si potevano indossare anche sotto la tuta spaziale, e trasferii nella tasca le poche cose che avevo; nel taccuino sentii, come incastrato tra i fogli, qualcosa di duro, la chiave della mia casa terrestre, che rigirai tra le dita per un momento, non sapendo che farne. Alla fine la posai sul tavolo. Mi venne in mente che potevo avere bisogno di un’arma.

Il mio temperino universale non rispondeva certo allo scopo, ma non possedevo altro e non avevo voglia di mettermi alla ricerca di una pistola a raggi gamma o qualcosa del genere. Mi sedetti su uno sgabello metallico in mezzo allo spazio libero, lontano da tutto. Desideravo stare solo e pensai con gioia che avevo a disposizione più di mezz’ora; era uno scrupolo superfluo, ma la puntualità meticolosa a tutti gli appuntamenti, importanti o no, è nella mia natura.

Le lancette dell’orologio, sul quadrante di ventiquattr’ore, segnavano le sette. Il sole tramontava. Le sette, ora locale, erano le venti a bordo del Prometheus. Ormai Solaris doveva essere rimpicciolito, sul video di Moddard, fino a confondersi con le stelle. Ma perché rimpiangere il Prometheus? Chiusi gli occhi. Regnava un silenzio totale; si udiva solo di tanto in tanto, a intervalli regolari, il gemito delle tubature. Nel bagno le gocce d’acqua stillavano sommessamente sulla porcellana.

Gibarian era morto. E se avevo capito bene le parole di Snaut, erano trascorse appena poche ore dal suo decesso.

Che cosa avevano fatto del cadavere? Lo avevano sotterrato?

In realtà, su quel pianeta, non sarebbe stato possibile.

Per un po’ pensai concretamente a quelle ipotesi, quasi che la sorte del morto fosse di somma importanza, finché non mi accorsi dell’inutilità di simili ragionamenti; mi alzai e presi a camminare in diagonale per la stanza, avanti e indietro.

Quando urtai con la punta del piede un piccolo zaino vuoto, vicino a una pila di libri accatastati, mi chinai a raccoglierlo.

Non era vuoto. Conteneva una bottiglietta di vetro scuro, così leggera che sembrava soffiata nella carta.

La guardai in controluce verso la finestra, sugli ultimi bagliori del funereo tramonto rossastro velato di lurida caligine. Che cosa mi prendeva? Perché mi occupavo di qualsiasi inezia mi capitasse per mano? Trasalii perché si era accesa la luce. Una fotocellula, ovviamente, sensibile all’avvicinarsi dell’oscurità. Aspettai che succedesse qualcosa, ma nell’ansia crescente lo spazio vuoto alle mie spalle mi preoccupava.

Decisi di reagire. Avvicinai lo sgabello agli scaffali. Da questi tolsi il secondo volume della vecchia monografia di Hughes e Eugle, La storia di Solaris, che conoscevo bene, e appoggiato sulle ginocchia il suo dorso solidamente rilegato mi misi a sfogliarlo.

La scoperta di Solaris era avvenuta cent’anni prima della mia nascita. Il pianeta gira intorno a due soli, uno rosso e uno azzurro. Per circa quarant’anni, dopo la scoperta, nessuna nave spaziale gli si era avvicinata. Si riteneva ancora valida, a quell’epoca, la teoria di GamowShapley sull’impossibilità della presenza di vita sui pianeti delle stelle doppie. L’orbita di questi corpi celesti, infatti, subisce una variazione ininterrotta, per il gioco di gravità alterno della coppia di soli. Ne derivano perturbazioni che di volta in volta accorciano o allungano l’orbita del pianeta, e dunque ogni forma di vita è distrutta sul nascere dalle radiazioni termiche o dal freddo glaciale.

I grandi cambiamenti avvenivano in periodi di centinaia di migliaia di anni, cioè un tempo brevissimo da un punto di vista astronomico o biologico, poiché l’evoluzione esige centinaia di milioni, se non miliardi, di anni.

Stando ai calcoli iniziali, Solaris, nel giro di cinquecentomila anni, si sarebbe avvicinato di mezza unità astronomica, cioè di circa settantacinque milioni di chilometri, al sole rosso, ed entro un altro milione di anni sarebbe piombato nella sua voragine rovente.

Tuttavia, dopo una decina d’anni dalla sua scoperta, si rilevò che l’orbita non pareva mostrare le variazioni previste, quasi che fosse fissa quanto l’orbita dei pianeti del nostro sistema solare.

Eppure le osservazioni e i calcoli, ripetuti in seguito con la massima precisione, avevano dato solo conferma di quello che già era noto: Solaris si muoveva su un’orbita variabile.

A questo punto, dalla condizione di un pianeta fra i tanti che ogni anno vengono scoperti e che negli elenchi generali rimangono semplicemente segnalati con poche righe di descrizione, Solaris si trovò promosso al rango di corpo celeste di primario interesse.

Quattro anni dopo questa scoperta, il pianeta fu studiato dalla spedizione di Ottenskjold, che orbitò intorno a esso con il Laokoon, accompagnato da due navi ausiliarie. Questa esplorazione costituì una ricognizione preliminare con carattere di provvisorietà e, anzi, d’improvvisazione, tanto più che non era attrezzata per sbarcare sul pianeta. In quell’occasione furono lanciati in orbite equatoriali e polari un gran numero di satellitiosservatorio automatici, il cui compito principale era la misurazione dei gradienti gravitazionali. Ma fu esaminata anche la superficie del pianeta, quasi completamente coperta dall’oceano, con rare terre emerse a forma di altipiani.

La loro superficie complessiva non raggiungeva quella del territorio europeo, sebbene il diametro di Solaris fosse del venti per cento maggiore di quello della Terra.

Quei frammenti deserti e rocciosi, disseminati irregolarmente, erano tutti concentrati nell’emisfero meridionale. Fu analizzata anche la composizione dell’atmosfera, e misurata con precisione la densità del pianeta, determinandone inoltre l’albedo e altre caratteristiche astronomiche. Com’era prevedibile, non fu individuato alcun segno di vita, né sulle terre, né nell’oceano.