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— Non ci sono degli altri pianeti come questo?

— Forse. Non si sa… noi ne conosciamo uno solo. E comunque è un pianeta estremamente raro. Non come la Terra. Noi siamo comuni, siamo l’erba dell’universo, e di questa qualità comune così universale andiamo talmente orgogliosi che abbiamo creduto di potervi fare rientrare tutto. In questo stato d’animo ce ne siamo partiti, allegri e contenti, per lo spazio: per altri mondi! Che voleva mai dire, altri mondi? Li avremmo dominati o ci avrebbero dominato, non c’era altro nei nostri poveri cervelli, e non ha senso. Non ha alcun senso. — Mi alzai e, tentoni, cercai nell’armadietto dei medicinali l’involucro piatto delle compresse di sonnifero. — Dormirò, cara — dissi, rivolto al buio in cui il ventilatore emetteva un alto ronzio. — Devo dormire, altrimenti non so…

Sedetti sul letto e lei mi prese la mano. Strinsi la forma invisibile e rimasi immobile così, finché il sonno non sciolse la forza dell’abbraccio.

La mattina, svegliandomi fresco e riposato, mi parve che l’esperimento sarebbe stato una bazzecola; non capivo perché mai mi fosse sembrato così importante nella notte. Non mi davo pensiero neanche del fatto che Harey sarebbe venuta con me. A dispetto di qualsiasi sforzo, non ce la faceva a restare sola in camera per due minuti; le dissi perciò di smettere di provare (si faceva anche rinchiudere) e di accompagnarmi; le consigliai di portare con sé un libro da leggere.

Più che il procedimento, m’incuriosiva quel che avrei trovato nel laboratorio. Nella grande sala biancoazzurra, a parte un certo vuoto sugli scaffali e negli armadi delle provette (alcune antine mancanti, la lastra di vetro incrinata di una porta parlavano di una lotta recente le cui tracce erano state cancellate nel miglior modo possibile), non c’era niente di particolare. Snaut, che si dava da fare con le apparecchiature, si comportò molto correttamente, considerò la presenza di Harey come una cosa naturalissima e le fece un salutino da lontano; mentre mi bagnava la fronte e le tempie con il liquido fisiologico comparve Sartorius. Entrò dalla porticina della camera oscura. Indossava un camice bianco e su questo un grembiule antiradiazioni nero che gli scendeva fino alle caviglie. Mi fece un saluto sbrigativo e asciutto, come se fossi uno dei cento assistenti di un istituto e stessimo riprendendo un lavoro interrotto. Solo allora mi accorsi che l’inespressività del suo viso era dovuta alle lenti a contatto che portava al posto degli occhiali.

Con le braccia conserte, rimase a guardare Snaut che mi fasciava la testa con una benda sopra gli elettrodi, creando una specie di cuffia. Più volte girò lo sguardo per tutta la sala senza far mostra di vedere Harey che, appollaiata con aria infelice su uno sgabello contro una parete, fingeva di leggere.

Quando Snaut si scostò dalla poltrona, girai la testa coperta di metallo e cavi per osservarlo mentre attivava l’apparecchio, ma in modo del tutto inaspettato Sartorius alzò una mano e con sussiego attaccò: — Dottor Kelvin, le chiedo un istante di attenzione e di concentrazione! Non intendo forzarla in nulla. Ciò non avrebbe comunque alcun senso. Le domando però formalmente di non pensare a se stesso, a me, all’egregio collega Snaut, né a qualsiasi altra persona, per concentrarsi sulla questione che stiamo affrontando. La Terra e Solaris, le generazioni di scienziati che, al di là dei singoli la cui vita ha un principio e una fine, formano un corpo unico, la perseveranza della nostra aspirazione a stabilire un contatto, il lungo cammino storico dell’umanità, la certezza che proseguiremo in futuro sulla stessa strada, la determinazione di dedicare sacrifici e fatiche, senza personalismi, a questa nostra missione, ecco i temi di cui lei deve impregnare la sua coscienza. Le associazioni di idee non dipendono interamente dalla sua volontà, ma il fatto stesso che lei si trovi qui garantisce la bontà dell’intenzione. Se lei non sarà sicuro di avere assolto il compito appieno, voglia dircelo, e l’egregio collega Snaut ripeterà la registrazione. Abbiamo molto tempo…

Le ultime parole furono accompagnate da uno stentato sorrisetto che non dissipò l’espressione imbambolata del suo sguardo. Mi venne voglia di ridere, per quella farragine di frasi pompose pronunciate con tanto sentimento, ma per fortuna Snaut ruppe il silenzio che si prolungava.

— Possiamo cominciare, Chris? — domandò, appoggiato col gomito, in un gesto noncurante e familiare, al quadro di comando dell’encefalografo, come se fosse lo schienale di una sedia.

Gli fui molto grato d’avermi chiamato per nome. — Possiamo cominciare — dissi, chiudendo gli occhi. Snaut, fissati gli elettrodi, appoggiò il dito sull’interruttore e l’ansia che mi aveva svuotato l’intelletto mi abbandonò di colpo. Fra le ciglia, vidi sulla lastra nera dell’apparecchio il lampeggiamento rosso delle luci di controllo. Sparì contemporaneamente la sensazione spiacevole di umido degli elettrodi metallici che mi stringevano la testa in un cerchio di fredde medaglie. Mi trovai in un’arena grigia, non illuminata. Era un vuoto circondato da ogni lato da una folla di spettatori invisibili ammassati sulle gradinate, tutti avvolti da un silenzio che esprimeva un ironico disprezzo per Sartorius e la «nostra missione». La tensione rifluì, perché dinanzi a quegli spettatori interiori dovevo ora improvvisare. «Harey?» Pensai questo nome con esitazione, con inquietudine, pronto a revocarlo subito. Ma la mia platea invisibile e cieca non protestava. Per un po’ fui tutto sentimento schietto, pentimento sincero, pronto a lunghi e pazienti sacrifici. Harey mi colmava, senza forma, senza lineamenti, senza volto, con un respiro di tenerezza impersonale e disperata, e attraverso la sua presenza vidi a un tratto nella penombra, con tutta la dignità del suo aspetto dotto e professorale, il padre della solaristica e dei solaristi, Giese. Ma non pensavo all’eruzione limacciosa, all’abisso nauseabondo che aveva inghiottito i suoi occhiali d’oro e i suoi baffi bianchi ben curati; lo vedevo soltanto nell’incisione del frontespizio della monografia, sullo sfondo finemente tratteggiato che l’artista aveva creato come un’aureola intorno alla testa; e quell’immagine, non tanto per i lineamenti quanto per l’espressione di avita e onesta saggezza, somigliava talmente a mio padre che non sapevo più chi dei due mi stesse guardando. Entrambi non avevano avuto sepoltura, fatto comune, ai nostri tempi, e che non desta particolare emozione. L’immagine scomparve e per un po’, non so per quanto, dimenticai la stazione, l’esperimento, Harey, l’oceano scuro, tutto; galleggiavo sulla certezza fulminea e istintiva che quei due uomini da tempo morti, infinitamente piccoli e ritornati polvere, avevano affrontato con coraggio tutti gli eventi della loro vita, e la pace che mi provenne da questo pensiero annullò la folla informe assiepata intorno all’arena nell’attesa di assistere alla mia sconfitta. Gli interruttori dell’apparato scattarono, la luce mi penetrò negli occhi. Sbattei le palpebre. Sartorius, sempre nella stessa posa, mi scrutava attentamente, Snaut gli volgeva le spalle, affaccendato intorno alle apparecchiature, strusciando ostentatamente le ciabatte che gli scivolavano via.

— Lei pensa, dottor Kelvin, che sia riuscito? — interloquì Sartorius con voce chioccia e nasale.

— Sì — dissi.

— Ne è certo? — insistette Sartorius con una sfumatura di meraviglia o forse di sospetto.

— Sì.

La fermezza e il tono ruvido della mia risposta fecero vacillare per un momento la severa prosopopea di Sartorius.

— Ah, allora… bene — mormorò, e si guardò in giro come incerto sul da farsi. Snaut si avvicinò alla poltrona e cominciò a togliermi le bende.