Era stata una fase caratterizzata da personalità grandissime e audaci sia nell’affermazione sia nella negazione di un concetto teorico, come quelle di Giese, di Strobel, di Sevada, l’ultimo dei grandi solaristi, scomparso in circostanze misteriose nei pressi del Polo Sud del pianeta, vittima apparentemente di un’imprudenza che nemmeno un novizio avrebbe commesso. Planava a bassa quota sull’oceano quando, sotto gli occhi di un centinaio di osservatori, aveva gettato il proprio apparecchio nella voragine di un agilante. Si parlò allora di improvvisa debolezza, di svenimento, di guasto ai congegni di guida; io credo che si trattò in realtà del primo suicidio, di uno scoppio improvviso di disperazione.
Non fu l’ultimo. Ma nell’opera di Gravinski non ce n’era traccia, ero io a supplire con dati, fatti e particolari che attingevo dalle mie conoscenze, mentre sfogliavo le pagine ingiallite.
Non c’erano più stati, in seguito, casi di attentati così patetici alla propria vita, ma è anche vero che si erano fatte rare le grandi personalità. Il reclutamento di studiosi che si dedicano a campi specifici della planetologia costituisce un fenomeno praticamente sconosciuto. La frequenza numerica con cui vengono al mondo individui dotati di grande ingegno e forza di carattere rimane invariata; variano invece le loro scelte. La loro presenza o assenza in un determinato campo di ricerca si può spiegare in relazione alle possibilità offerte dal campo stesso. Ora, comunque si giudichino gli studiosi dell’epoca classica della solaristica, nessuno potrà negare loro la grandezza del genio. Per una decina d’anni i migliori matematici e fisici, i più insigni specialisti di biofisica, informatica, elettrofisica erano stati attratti dal muto gigante di Solaris. Poi, da un momento all’altro, l’esercito di ricercatori sembrò senza capi. Rimaneva una schiera grigia e anonima di raccoglitori e compilatori, sia pure capaci di avviare talvolta esperimenti originali, ma le spedizioni massicce concepite su scala globale e le ipotesi ardite e stimolanti non c’erano più.
La solaristica cominciava a sgretolarsi e, parallelamente alla sua perdita di quota, cresceva una massa d’ipotesi, diversificate in quanto a particolari secondari, ma unanimi nell’insistere sul carattere degenerativo, regressivo, involutivo del mare di Solaris. Ogni tanto spiccava una concezione più ardita e interessante; tutte però giudicavano l’oceano negativamente, come prodotto finale d’uno sviluppo che da molto tempo, da millenni, aveva oltrepassato la fase di più alta organizzazione e che, ridotto a mera unità fisica, agonizzava producendo creazioni vane e senza senso. Un’agonia monumentale che durava da secoli: così si considerava Solaris.
Mimoidi e longhi erano tumori, tutti i processi osservati sulla superficie dell’enorme corpo fluido manifestazioni di caos e di anarchia; e a tal punto questa tendenza volse all’idea fissa che tutta la letteratura scientifica dei sette od otto anni successivi, sia pure nel velo di formulazioni misurate, si nutrì di affermazioni che in realtà erano soltanto un torrente d’ingiurie che un’intera generazione di solaristi derelitti, senza capi, riversava per vendetta contro l’oggetto stesso delle proprie cure, imperturbabile, indifferente, sordo alla loro assiduità.
Conoscevo i lavori originali, a mio parere ingiustamente esclusi da quella raccolta di classici «solaristici», di un gruppo d’una decina di psicologi europei che interessavano la solaristica solo in quanto avevano condotto su un arco di tempo notevolmente lungo un rilevamento delle reazioni dell’uomo comune, del profano. Era emersa in tal modo l’esistenza di una corrispondenza molto stretta fra le fluttuazioni dell’opinione pubblica e i contemporanei processi di cambiamento di rotta negli ambienti scientifici.
Anche in seno al comitato coordinatore degli Istituti planetologici, dove si prendevano le decisioni in merito all’appoggio da dare alle ricerche, era in atto un mutamento che si esprimeva nella riduzione graduale ma continua dei sostegni alle squadre che partivano per il pianeta.
Le mozioni sulla necessità di ridurre gli stanziamenti per le ricerche erano contrastate da alcune voci che richiedevano, al contrario, mezzi d’azione più energici; nessuno, in tal senso, superò il direttore amministrativo dell’Istituto cosmologico onniterrestre, il quale si spinse a sostenere con ostinazione che l’oceano vivente non già sdegnava d’occuparsi degli uomini, bensì non se ne accorgeva, non diversamente da un elefante che non sente le formiche a spasso sulla sua schiena. Per richiamare l’attenzione e far sì che si concentrasse sugli uomini, occorreva impiegare incentivi potenti e macchine gigantesche, di grandezza adeguata alla dimensione del pianeta. L’aspetto buffo della cosa, come la stampa non mancò di sottolineare con malizia, era che la proposta veniva dal direttore dell’Istituto cosmologico e non di quello planetologico, che finanziava le spedizioni su Solaris; ciò significava fare i generosi con le risorse altrui.
Proseguiva intanto il girotondo delle ipotesi, rinnovando le vecchie con l’aggiunta o la precisazione di un particolare o capovolgendone le ambiguità e le conclusioni. La solaristica, disciplina fino ad allora chiara nonostante la sua ampiezza, si trasformava in un labirinto pieno di vicoli ciechi. In un clima generale d’indifferenza, di ristagno e di scoraggiamento, un secondo oceano, di carta stampata, sembrava accompagnare nel tempo quello di Solaris.
Due anni prima che, da laureando, entrassi all’Istituto nel gruppo di lavoro di Gibarian, era sorta la Fondazione Metta e Irving, che prometteva alte ricompense a chi avesse trovato il sistema per sfruttare l’energia del magma oceanico. Si erano fatti dei tentativi, le navi spaziali avevano trasportato sulla Terra carichi interi di gelatina plasmatica. Erano stati elaborati dei metodi di conservazione a bassa e ad alta temperatura, con microatmosfere e microclimi che riproducevano quelli di Solaris, con fissazione per mezzo di radiazioni, con milioni di ricette chimiche, assistendo ogni volta, immancabilmente, a una decomposizione più o meno lenta, che era stata descritta con la massima precisione in tutte le successive fasi: autolisi, macerazione, liquefazione primaria, o precoce, e secondaria, o tardiva. I campioni prelevati sulle efflorescenze e sulle creazioni del plasma subivano sempre la medesima sorte. Cambiava solo il cammino verso la fine, che, dopo un processo di autofermentazione, lasciava una cenere leggera dai riflessi metallici. Qualsiasi solarista era in grado di riconoscerne a occhi chiusi la composizione e il rapporto fra gli elementi costitutivi.
Risoltosi in fiasco completo ogni tentativo di mantenere in vita, sia pure allo stato vegetativo e ibernante, una qualsiasi parte grande o piccola del mostro separata dal suo organismo planetario, nacque la convinzione (sviluppata dalla scuola di Meunier e Proroch) che per risolvere il mistero esistesse una sola strada: trovare la chiave giusta d’interpretazione, che avrebbe chiarito tutto…
Alla ricerca di questa chiave, di questa pietra filosofale solaristica, si era gettata con grande spreco di tempo e di energia una quantità di gente digiuna di studi. Il numero di menti malate, estranee all’ambiente scientifico, che si davano alla speculazione — maniaci che per fanatismo nulla avevano da invidiare ai ricercatori del moto perpetuo o della quadratura del cerchio — si moltiplicò come per il propagarsi di un’epidemia, tanto che se ne occupò anche la psicologia. Questa fiammata, tuttavia, si estinse nel giro di alcuni anni e all’epoca in cui mi preparavo a partire per Solaris non se ne parlava più, né sui giornali né nelle conversazioni, come non si parlava più, in genere, della questione dell’oceano.