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Riponendo il libro di Gravinski al suo posto, trovai, fra i grossi volumi, un opuscolo sottile di Grattenstrom, scrittore fra i più singolari della letteratura solaristica. Questa era un’opera contro l’umanità stessa, un libello sulla nostra specie compilato con matematica aridità da un autodidatta che, dopo avere pubblicato alcuni contributi assai curiosi in campi marginali della fisica quantica, aveva voluto dimostrare in quelle poche pagine che le più alte conquiste scientifiche e teoretiche costituivano appena un passettino in avanti rispetto al concetto preistorico, grossolano, antropomorfico del mondo circostante. Attraverso l’indagine sulle eventuali corrispondenze tra il corpo umano (le proiezioni dei nostri sensi, della struttura del nostro organismo e delle limitazioni e imperfezioni della fisiologia umana) e le formule della teoria della relatività, il teorema dei campi magnetici, la parastatica e le teorie unificate del campo cosmico, Grattenstrom giungeva alla conclusione finale che il «contatto» dell’uomo con qualsiasi civiltà di natura non umana, aumanoide, non poteva né mai avrebbe potuto attuarsi. In questo libello, l’oceano vivente non veniva mai nominato; eppure la sua presenza, sotto forma di un trionfale silenzio, affiorava in ogni frase.

Questa era stata, comunque, la mia impressione nei confronti dell’opuscolo di Grattenstrom. Che era, in sostanza, una curiosità e non un solarianum nel vero senso del termine. Se si trovava nella biblioteca fra i classici, doveva avercelo messo certamente Gibarian, che a suo tempo me l’aveva segnalato.

Con uno strano sentimento, quasi reverenziale, rimisi anche questo al suo posto, fra i libri stretti sul ripiano. Sfiorai con la punta delle dita i dorsi rilegati, verde bronzo, dell’ Almanacco di Solaristica. Senza alcun dubbio, in seguito agli avvenimenti degli ultimi giorni, nonostante tutto il caos e tutte le miserie da cui eravamo attorniati, avevamo raggiunto alcune certezze su alcune questioni fondamentali che nel corso degli anni avevano fatto versare inutilmente fiumi d’inchiostro e alimentato discussioni rimaste sterili per mancanza di elementi determinanti.

Qualcuno, per amore del paradosso o per ostinazione, avrebbe potuto mettere ancora in dubbio che l’oceano fosse una creatura viva. Impossibile negare, però, l’esistenza di una sua «psichica», qualsiasi cosa s’intenda con tale parola. Era comunque ovvio che fosse influenzato dalla nostra presenza… e ciò eliminava definitivamente le teorie solaristiche sull’oceano come «mondo in se stesso» o «essere introverso» che, per processo involutivo, era rimasto privo di organi sensori e che, ignaro dell’esistenza di fenomeni e oggetti esterni, girava come un prigioniero in un circolo chiuso gigantesco di correnti di pensiero, di cui era sede, cornice e fonte.

Inoltre avevamo compreso che, a differenza di noi, egli riusciva a sintetizzare artificialmente i nostri corpi e addirittura a perfezionarli ai fini dei suoi incomprensibili intenti, introducendovi delle modifiche di struttura subatomica.

Esisteva, insomma. Viveva, pensava, agiva. La possibilità di ridurre il «problema Solaris» all’assurdo o allo zero, la tesi che non avessimo a che fare con un essere e che quindi la nostra sconfitta tale non fosse non era più sostenibile. Volente o nolente, l’umanità doveva ora prendere in considerazione un vicinato che, seppure distante mezzo miliardo di chilometri di spazio e molti anni luce, era compreso nella nostra zona di espansione; un vicinato che aveva maggior peso di tutto il resto dell’universo. «Forse siamo a un punto cruciale della storia» pensai. Poteva prevalere la decisione della ritirata, del dietrofront, subito o in un prossimo futuro; anche la liquidazione della stazione non era impossibile, o improbabile. Ma non credevo che in questo modo si fosse trovato un rimedio: l’esistenza del colosso pensante non avrebbe più dato requie alla gente. Anche se l’uomo avesse attraversato galassie, anche se si fosse messo in comunicazione con altre civiltà e con altri suoi simili, Solaris avrebbe eternamente rappresentato una sfida.

Un altro volumetto rilegato in pelle si era infilato fra le annate dell’ Almanacco. Prima di aprirlo rimasi un po’ a rimirarne la copertina rovinata. Era un vecchio libro, Introduzione alla solaristica di Muntius; ricordavo ancora la notte di sonno che mi aveva sottratto, il sorriso di Gibarian nel darmelo, il giorno terrestre che albeggiava dietro i vetri della mia finestra quando ero giunto alla parola «fine». «La solaristica» scriveva Muntius «è un succedaneo di religione dell’era cosmica, una fede che riveste i panni della scienza; il Contatto, suo fine supremo, è altrettanto oscuro e nebuloso quanto la Comunione dei Santi o la venuta del Messia. L’esplorazione pone in atto un sistema liturgico sotto la forma metodologica; l’umile laboriosità dei ricercatori è l’attesa di un Avvento, di un’Annunciazione, poiché tra Solaris e la Terra non esistono né possono esistere ponti. Ma questa verità evidente, come altre, come l’assenza di esperienze in comune e di concetti comunicabili, viene respinta dai solaristi nel modo in cui i credenti ricusano qualsiasi argomento che mini le basi della loro fede. Del resto, che cosa si aspetta l’uomo, che cosa si ripromette mai, stringendo ‘relazioni informative’ con un mare pensante? Un elenco delle vicissitudini di un’esistenza senza fine nel tempo, così antica da avere sicuramente perso memoria delle proprie origini? Una descrizione dei desideri, delle passioni, delle speranze, delle angosce che si liberano nel parto autogeno di montagne viventi, una trasmutazione esistenziale della matematica, una pienezza di solitudine e rassegnazione? Ma tutto ciò costituisce una conoscenza non tramandabile, e se proviamo a tradurla in una qualsiasi lingua terrestre, gli auspicati valori e significati vanno perduti, rimangono dall’altra parte. Del resto, i ‘credenti’ non aspirano alla percezione di cognizioni di questo tipo, tra l’altro pertinenti a un ordine poetico più che scientifico, ma aspettano la Rivelazione che spieghi il senso dell’esistenza umana! La solaristica è figlia postuma di miti da tempo defunti, una rifioritura di nostalgie mistiche che le labbra degli uomini non osano proferire apertamente ad alta voce, e il suo fondamento, profondamente nascosto, è la speranza della Redenzione…

«Ma i solaristi, incapaci di riconoscere questa verità, evitano prudentemente qualsiasi interpretazione del Contatto, che nei loro scritti è presentato come fine ultimo mentre nelle opinioni ancora serene dei primi tempi era visto solo come un inizio, come un avvio che, con l’andare degli anni, è stato invece santificato, fino a identificarsi con il Cielo e con l’Eternità…»

Semplice e amara è l’analisi di Muntius, questo «eretico» della planetologia, ma brillante nella negazione, che distrugge il mito di Solaris, o meglio della «missione dell’uomo».

Prima voce che ardisse levarsi in una fase di sviluppo della solaristica ancora piena di fiducia e d’ottimismo, cadde in un silenzio totale, fu ignorata. Ben si capisce, poiché l’accettazione del verbo di Muntius equivaleva alla cancellazione della solaristica così com’era. In quanto all’instaurazione di un’altra, più lucida e umile, l’attesa di un fondatore fu vana.

Cinque anni dopo la morte di Muntius, quando il suo libro era già una rarità bibliografica, introvabile nelle raccolte di solaristica come nelle biblioteche filosofiche, nacque una scuola, il circolo norvegese, che si richiamava a lui. Ma l’eredità di Muntius si disperse secondo la personalità del pensatore che se ne appropriava, e la serenità della sua lezione sfociò nell’ironia aggressiva e corrosiva di Erle Ennesson e nel contesto più triviale della solaristica pratica, o «utilitaristica», di Phaelang. Secondo le affermazioni di quest’ultimo, bisognava mirare ai concreti profitti che si potevano trarre dalle esplorazioni senza rincorrere vane chimere o disperdersi nelle false speranze di un contatto di civiltà, di una comunione intellettuale fra le due civiltà. Messi a confronto con l’implacabile chiarezza d’analisi di Muntius, tutti gli scritti di questi suoi discepoli non sembrano altro che lavori diligenti o addirittura di volgarizzazione, fatta eccezione per le opere di Ennesson e forse anche di Takata. Muntius stesso aveva detto proprio tutto, definendo la prima fase della solaristica come epoca «dei profeti», fra i quali includeva Giese, Holden e Sevada, chiamando la seconda fase «il grande scisma» (scissione della chiesa unica solaristica in una quantità di confessioni diverse e discordi), e prevedendo una terza fase, quella della fossilizzazione dogmatica e scolastica, che sarebbe sopraggiunta quando si fosse esplorato tutto quel che c’era da esplorare. Questo non si è avverato. A mio parere, Gibarian aveva ragione nel giudicare che l’argomentazione sbrigativa di Muntius fosse di un madornale semplicismo, avendo trascurato di considerare ciò che nella solaristica era tutt’altro che elemento di fede, poiché i lavori instancabilmente perseguiti prendevano in considerazione solo la realtà materiale di un globo che girava intorno a due soli.